Archivio | aprile 2012

Piccolo trattato sulla bontà

Italiani, non spendete soldi per salvare cani e gatti, ma destinate denaro alle nostre strutture. Noi salviamo vite umane. Noi recuperiamo quei ragazzi che la società bolla come irrecuperabili“, sbottava don Mazzi, fondatore della comunità di recupero Exodus, una ventina di giorni or sono. In un articolo del 17 marzo 2011, apparso sul Corriere, Gian Antonio Stella dava voce all’indignazione di Suor Laura Girotto: “Sono indignata, amareggiata, scandalizzata, confusa. Leggo di iniziative per adottare i cani a distanza. Vedo nei supermercati reparti interi dedicati agli alimenti per animali, alla loro cura, ai loro giocattoli… I giocattoli! Ripeto: io li amo gli animali, ma santo Iddio! Ad Adua i bambini muoiono per delle sciocchezze, magari solo perché manca la cannula per metterli sotto flebo e reidratarli. Basta una diarrea infantile per uccidere un neonato in 24 ore. Come posso accettare questo abisso fra l’attenzione per gli “amici dell’uomo” e il disinteresse invece per l’uomo?

La faccenda è delicata. Il ragionamento dei religiosi citati apparentemente non fa una grinza: diamo, nel fare la beneficenza, la priorità agli uomini rispetto agli animali. Con la crisi la coperta si accorcia, le associazioni di volontariato sono in difficoltà, ergo non possiamo concederci lussi. I cani s’arrangino, salviamo i bambini. Il ragionamento funziona, ma è parziale e piuttosto miope. Parziale perché presuppone che qualcuno possa decidere le priorità, in modo che i soldi vengano dati alle iniziative più importanti, più nobili. Questo qualcuno, pare di capire dalle parole di Don Mazzi e Suor Girotto, dovrebbe essere il “buon senso comune”. Cosa sia di preciso non ci è dato sapere, ma forte è il sospetto che coincida con il loro punto di vista e che, ci mancherebbe altro, giudichi le loro attività più utili di altre. Ma non è detto che tutti pensino che Exodus e Amici di Adwa svolgano un ruolo fondamentale per l’umanità. Qualcuno può tovare le loro iniziative inadeguate, può pensare che adottino strategie sbagliate, qualcuno addirittura può pensare che altre siano le priorità sulle quali intervenire. Emerge qui lampante la miopia dello sfogo dei due religiosi. Seguendo la logica sottesa alle loro dichiarazioni diviene legittimo domandarsi: perché sprecare i soldi per i tossicodipendenti, quando abbiamo i bimbi  etiopi che muoiono di fame? Oppure ci si potrebbe chiedere: perché finanziare progetti per l’Africa, quando in Italia, dati del censimento 2011, ci sono 71000 persone che vivono in baracche? Perché occuparsi dei disabili psichici o mentali, viste le apparentemente scarse probabilità di successo delle cure? Sono più meritevoli di attenzione le foreste pluviali minacciate dalla deforestazione o i territori del delta del Niger devastati dal gas flaring? Più importanti gli animali selvatici o i pets?

La complessità del mondo che ci circonda è un dato di fatto e il volontariato la riflette. Proprio perché parliamo di volontariato non possiamo pretendere che ci siano delle scelte guidate dall’alto, perché la natura stessa del volontariato presuppone che ciascuno metta a disposizione le proprie capacità seguendo liberamente i propri interessi, il proprio giudizio e la propria sensibilità. E quindi qualcuno dona a Exodus, qualcuno a Emergency (a proposito: dove lo mettiamo in classifica?), qualcuno (di cui non ricordo più il nome) alla LAV. Altra cosa sarebbe giudicare gli investimenti pubblici: in questo caso è giusto che chi amministra una quantità limitata di fondi faccia delle scelte. Quanto ai canili e quanto ai servizi di assistenza domiciliare agli anziani? Quanto allo sviluppo di infrastrutture e quanto alla cooperazione internazionale?

Certo. Il presupposto è una società sana, dove il volontariato non rappresenti la soluzione ai problemi del mondo, che vanno affrontati dalla politica.

Suor Girotto lamenta poi l’eccesso di attenzione dato in TV agli animali. Ma la TV, purtroppo, obbedisce alle leggi dell’audience. Il barboncino con le unghie consunte commuove, il bambino mutilato da una mina antiuomo ci sbatte in faccia le nostre responsabilità di occidentali: chissà cosa fa più ascolti? Anche qui la questione è complicata, investe il livello culturale del pubblico e la funzione educatrice del medium, conviene ora non addentrarsi. Meglio concludere con una goccia di veleno: ai Don Mazzi e alle Suor Girotto consiglio, prima di incitare a una specie di guerra tra poveri del volontariato, di bussare alle pesanti porte dei palazzi dove risiedono i loro superiori, che lì ce n’è di ciccia.

Ci sono cose che non capisco e a cui nessuno dà la minima importanza

Leggo su Repubblica Parma, in merito alle firme a sostegno delle liste elettorali per le elezioni amministrative che avranno luogo tra una decina di giorni:

la Procura ha deciso di andare in fondo a questa storia delle doppie firme. “Si è scoperto infatti – spiega Laguardia – che tutte le liste elettorali, nessuna esclusa, sono piene di firme doppie”. Si parla di centinaia di nomi ripetuti più di una volta. Quella che ne conta di più è quella di Wally Bonvicini (civica). Le elezioni non sono però a rischio perchè “anche eliminando i doppioni ogni lista ha il numero sufficiente di votanti per essere iscritta”.

Dunque: tutte, tutte le liste hanno presentato firme doppie (e qualcuno le ha autenticate). Dunque: tutte, tutte le liste hanno imbrogliato. Dunque: tutte, tutte le liste si presentano alle elezioni compiendo un illecito. Un bel biglietto da visita. Considerato anche che le consultazioni per le elezioni del sindaco si tengono anticipatamente in quanto la precedente giunta comunale si è dovuta dimettere travolta da enormi scandali giudiziari.

Quindi tutti hanno imbrogliato, ma tutti restano in corsa perché “anche eliminando i doppioni ogni lista ha il numero sufficiente di votanti per essere iscritta”. Allora devo votare degli imbroglioni in virtù del fatto che hanno imbrogliato, ma non era necessario che lo facessero. Hanno barato preventivamente, mi pare di capire, senza nemmeno sapere se ne avessero bisogno o meno. Il fatto che non ne avevano bisogno li assolve, forse non dal punto di vista giudiziario, perché le indagini proseguono, ma dal punto di vista politico sì. Cioè politicamente accettiamo che siano tutti imbroglioni e andiamo a votarli. Bene.

Devo cercare di convincermi che non sia una cosa importante, non imbrogliare prima ancora di essere eletti.

Devo farmi meno problemi. Perché?

Liberazione: tre incipit e il porco lasciato a Maggese

I

25 aprile e, visto che i regali non vanno sprecati, mi sono deciso a cuocere il porco così. Ho fatto tutto per bene: scottato la carne, mia e del maiale, dopo averla salata e pepata; soffritto la pancetta; aggiunto maiale, uvetta e cipolla e poi, lo ammetto, ho recitato una preghiera versando in pentola due barattoli di Coca Cola. Ora il porco è a Maggese, sornione sobbolle e profuma la casa. Un long playing dei Weather Report gira sul piatto nella stanza di là.

II

ImageEmilio Salgàri si è ammazzato, il 25 di aprile, 101 anni fa. Salutò gli editori che si erano arricchiti sulla sua miseria spezzando la penna e apprendosi la pancia con una lama affilata. Ricordo, avevo nove anni, il mio primo libro: un vero romanzo, portato in dono da Santa Lucia insieme a qualche etto di carbone di zucchero. Comincia così:

La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Borneo.
Pel cielo, spinte da un vento irresistibile, correvano come cavalli sbrigliati, e mescolandosi confusamente, nere masse di vapori, le quali, di quando in quando, lasciavano cadere sulle cupe foreste dell’isola furiosi acquazzoni; sul mare, pure sollevato dal vento, s’urtavano disordinatamente e s’infrangevano furiosamente enormi ondate, confondendo i loro muggiti cogli scoppi ora brevi e secchi ed ora interminabili delle folgori.

Quell’incipit fu per me un fulmine nel cielo sereno dell’infanzia. Pensai qualcosa come: “Davvero si possono scrivere cose così?” e mi tuffai nel turbine di un mondo dove tutto, ha scritto Michele Mari, è iperbolico: la guerra, l’amore, la natura, la ricchezza e il degrado, l’odio per gli inglesi e per il colonialismo.

Ne sono seguiti altri di incipit per me “fulminanti”, di autori con i quali Salgàri, forzato della scrittura, non può reggere il confronto. Eccone due:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c’è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all’ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell’anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell’invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita.

III

Adesso è ora di pensare al contorno, patate al forno con la scorza e il sale grosso. E al pomeriggio per le strade di Parma che, fa male ammetterlo, il giorno della Liberazione è bella da morire. Come tutta l’Italia, ma forse un po’ di più.

Scoprire Guastalla

La mostra allestita presso Palazzo Magnani a Reggio Emilia, dedicata ai pittori orientalisti italiani e intitolata Incanti di terre lontane, è davvero affascinante. Un centinaio di opere raggruppate per tema: il Mediterraneo, il deserto, la città orientale, l’odalisca, il Giappone. Tra i molti nomi esposti, oltre ad Hayez e Fontanesi, spiccano, per la quantità di opere presenti, Alberto Pasini e Roberto Guastalla. Proprio quest’ultimo mi ha conquistato, da profano quale sono, per la precisione e la ricchezza di dettagli con cui ritrae i luoghi visitati nei suoi viaggi: Impero Ottomano, Nordafrica, Balcani. Uno sguardo “fotografico”, che evidenzia un approccio quasi documentaristico, distante da quello della gran parte degli altri artisti in mostra, interessati all’Oriente come fonte d’ispirazione per un discorso tutto occidentale.

Ecco Ad Alkazar, di R. Guastalla, 1905:

Image

In mostra, fino al 1° maggio, si possono vedere anche i taccuini e gli album di viaggio dell’artista.

Alternative

1

E ti dicono: “Ci vieni a vedere Beppe Grillo?”

“Perché?”

“Beh, è un comico, fa ridere, è sabato sera…”

Ok, a me Grillo fa ridere, potrei andarmelo a vedere. Solo che poi fra un paio di settimane si vota. E lui, insomma, ci chiede di votarlo, in quelle elezioni. E non posso andare a vedere lo spettacolo di uno che poi mi chiede il voto. Come faccio? Non vale, chiedere il voto alla fine dello show. Non è nelle regole del gioco, caro Beppe Grillo. Non tanto nelle regole del gioco della politica, ché chissenefrega in fondo. Chiedere il voto non sta nelle regole del gioco dello spettacolo, dell’arte in generale. Rovina tutto, chiedere il voto. Lo spettacolo diventa osceno, manipolatorio, inquietante. Mi fa paura. E non perché penso che l’arte debba essere svuotata di contenuti sociali e politici. Tutt’altro.

“No, stasera non vengo a vedere Grillo!” rispondo allora.

Sto a casa, così mi tolgo anche un altro impiccio. Perché Grillo mi fa ridere, è vero, ma è razzista, qualunquista e dozzinale nell’uso della lingua italiana. E quindi mi vergogno del fatto che mi faccia ridere.

2

Nella classifica dei libri più venduti della settimana si conferma Gramellini, sale Ligabue. Poi ci sono anche Baricco, un volume di successo su una dieta, un libro che è il millesimo anti-Harry Potter… Cosa c’entra la classifica con Grillo? Nulla… se non che, anziché vedere il comico genovese, potrei organizzarmi per un bel suicidio. Passino tutti. Ma Baricco è troppo.

Alternativa al suicidio è trovare un buon modo di cucinare un kg di coscia di maiale, con il forno fuori uso. Contorno di funghi.

 

Puffiamo la scuola?

Conad, con la complicità del Ministero dell’Istruzione, lancia l’iniziativa “Insieme per la scuola“. Si tratta di una raccolta punti un po’ particolare: fai la spesa, ogni dieci euro ti danno un pacchetto di figurine dei Puffi, dentro il pacchetto c’è anche un buono. Eccolo:

I buoni vanno raccolti e portati a scuola. Con i buoni raccolti l’Istituto, preventivamente registrato all’iniziativa, vince i premi in catalogo: PC, stampanti, videoproiettori, ecc. Benefici per tutti: la scuola ottiene le attrezzature informatiche, i bimbi potranno adoperarle, le mamme e i papà avranno la sensazione di essere Bravi Genitori facendo semplicemente la spesa.

Peccato che ci siano alcune controindicazioni.

1) Un’iniziativa del genere introduce una campagna pubblicitaria all’interno dell’istituzione scolastica, una campagna che prevede, tra le altre cose, visite ai negozi con annessa possibilità di incontrare i Puffi. Si tratta di una procedura subdola perché diretta a minori e costruita in modo che gli adulti, personale scolastico in primis, non possano fare da filtro per quanto riguarda i contenuti. Se, come scuola, ho aderito all’iniziativa, mica posso permettermi di sputare nel piatto dove mangio. Chris Cornell durante un festival aggredì violentemente la multinazionale organizzatrice dell’evento: fece discutere, ma non convinse nessuno.

2) L’adesione di un Istituto a “Insieme per la scuola” pone dei limiti alla libertà di scelta dei genitori sul dove e sul come fare la spesa: come posso a cuor leggero spendere i miei soldi in un posto, quando so che spendendoli da Conad aiuto la scuola di mio figlio? Insomma, nessuno è costretto a partecipare, ma se gli altri bambini vanno tutti a scuola felici con i buoni, mio figlio dev’essere l’unico che arriva senza? Già lo spedisco a scuola con la maglietta del Che, mandarcelo senza buoni Conad mi sembra troppo.

3) L’esperienza USA dimostra che, nonostante alcuni benefici, la sponsorizzazione nella scuola ha causato parecchi disguidi: dalle classi portate a vedere lo spot in aula magna prima delle lezioni (evidentemente al posto della preghiera), all’utilizzo obbligato dei prodotti forniti dalle aziende sponsorizzatrici, per esempio nelle mense e nelle palestre, nonostante comportassero in alcuni casi danni alla salute dei ragazzi. Inoltre, difficilmente qualificabile e quantificabile, ma non per questo neutro e sottovalutabile, è l’effetto dell’esposizione prolungata dei bambini ai marchi.

Capisco le obiezioni: davanti ai soldi non si guarda in faccia a niente e a nessuno. La scuola versa in uno stato tale che non può permettersi la puzza sotto il naso. Forse è vero, ma credo che quando si tratta di bambini, della loro edcazione, della loro crescita, questi ragionamenti, da adulti, debbano restare fuori dalla porta, insieme ai marchi, insieme a Conad.

Orientalismo in cucina

Cominciate con il procurarvi dei semi di cumino essiccati e macinati. Saltate dello spezzatino di manzo a pezzettoni in olio di oliva, in modo da scottarlo per bene, così la carne non perderà i suoi succhi durante la cottura. Mentre saltate il manzo, tritate cipolla, sedano e carota. Se qualcun altro lo fa mentre vi occupate del manzo è meglio. Ora soffriggete il trito per un po’, poi unite la carne e fate andare qualche minuto. Versatevi sul palmo della mano una bella dose di cumino e spargetela sulla carne, salate. Affogate quindi il tutto in brodo vegetale. Abbondante. Il brodo vegetale dovete averlo preparato prima, altrimenti confidate in una vicina anziana. A questo punto potete schiaffarvi sulla sedia, dietro a un buon bicchiere di bianco secco, direi Lugana, ma sono di parte. Scrivete qualche scemenza sul blog, attendete che il profumo intenso e dolciastro del cumino invada la casa. Ci vorranno quattro giorni per farlo andare via. Ah, meglio mettere al riparo i vestiti. Mentre attendete che la carne diventi così tenera da sfarsi sotto la pressione di una forchetta, mentre il vostro aiutante prepara un contorno, per esempio riso, inalate a fondo l’aroma della spezia. In quell’odore intenso c’è l’Oriente. Giuro.

Leggere Ubik ai tempi della crisi

Nel difficilmente decifrabile Ubik, romanzo capolavoro di Philip K. Dick, il protagonista, Joe Chip, si trova a combattere contro la regressione temporale del mondo che lo circonda. Elettrodomestici, beni di consumo, velivoli, automobili, edifici mutano, trasformandosi da oggetti avveniristici a pezzi di modernariato. Il mondo retrocede dagli anni Novanta, in cui tutto è meccanizzato, ma a pagamento (persino la porta di casa chiede una moneta per lasciar passare il proprietario) agli anni trenta, proiettando il lettore in una cornice dall’irresistibile sapore vintage. Alla regressione temporale pare seguire la morte, a causa di una sorta di avvizzimento, di alcuni personaggi. Le trasformazioni assumono così un aspetto inquietante e negativo e Joe cerca di resistere loro aggrappandosi allo strampalato mondo che lo circonda con tutte le sue forze, in particolare quando comprende essere a rischio la sua stessa vita. Esiste una sostanza in grado di fermare la regressione temporale degli oggetti: l’Ubik. Joe lo scopre grazie a uno spot televisivo nel quale una signora restituisce a un frigorifero invecchiato di 62 anni il suo aspetto sfavillante. Ma il potere di Ubik non si ferma qui, esso è anche in grado di restituire vigore ai personaggi a rischio di consunzione, di morte per avvizzimento. Per essere funzionante, il rimedio deve essere reperito sotto forma di spray, nella confezione moderna insomma, e non regredito all’antico misterioso unguento elisir d’Ubique o ad altre forme. Per quanto Joe, verso la fine della vicenda, riesca ad avere un contratto per una fornitura a vita di spray, reperirlo, nel mondo instabile e mutato in cui si trova, diviene sempre più complicato.

Ciascun capitolo del romanzo porta in epigrafe uno spot, un messaggio pubblicitario nel quale Ubik è di volta in volta un diverso bene di consumo: un imprecisato elettrodomestico, una birra, un caffè, un condimento per insalate, una lametta, ecc. Ciascuno di questi spot si conclude con un avvertimento che suona, più o meno, così: “innocuo se usato secondo le istruzioni”.

Per fermare il processo di disgregazione del mondo bisogna in qualche modo aggrapparsi alla merce, al consumo, sembra dire il romanzo. Ma aggrapparsi alla merce è sempre più difficile e potrebbe diventare impossibile. Potrebbe non essere più reperibile Ubik nella forma adatta. E magari la merce, l’Ubik, potrebbe non funzionare più: nessuno garantisce che ogni volta lo spray avrà il suo magico effetto. Inoltre: a quale mondo restare aggrappati? A un mondo altamente instabile, che continua a regredire nonostante qualche toppa temporanea? A un mondo che, se anche tornasse quello originario, sarebbe comunque un mondo dove tutto è monetizzato, anche le porte e il tostapane? Siamo sicuri che ne valga la pena? Non è certo Dick a dare risposte: nel romanzo l’autore infatti preferisce insinuare il dubbio e giocare a dilatarlo.

Nell’Italia (e non solo) di oggi, il rilancio dei consumi, la rincorsa alla merce, dovrebbe costituire il volano in grado di far ripartire la crescita e rivitalizzare il sistema economico, da troppo tempo alle corde. Lo ripetono i “tecnici” che ci governano, gli opinionisti, i sindacalisti, gli industriali. Sono state fatte politiche, negli anni passati, per pompare il mercato di alcuni prodotti chiave per l’economia nazionale, come l’automobile. Sono state fatte campagne più o meno esplicite per indurre i cittadini a risparmiare meno e spendere di più, per convincerli a investire i risparmi. Ma, a oggi, la crescita latita. Sarà per gli stipendi dal potere d’acquisto ridotto all’osso, sarà per la tassazione sempre più soffocante necessaria a contenere il debito pubblico, sarà per la paura che attanaglia i cittadini.

Insomma la merce, l’Ubik in grado di mantenere vitale il sistema, è sempre più latitante. Potrebbe non funzionare più. E se miracolosamente funzionasse ancora, che cosa preserverebbe? Il mondo così com’è? Siamo sicuri che ne valga la pena?

Dick non dava risposte (ma forse sì). Meglio fare come lui.

Non è successo niente

A Brescia, il 28 maggio 1974, non è successo niente.

• Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
• Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
• Euplo Natali, anni 69, pensionato
• Luigi Pinto, anni 25, insegnante
• Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
• Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
• Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
• Vittorio Zambarda, anni 60, operaio

Otto vittime senza giustizia.

Bossi e l’apartheid

Ho visto con i miei occhi un leghista prendere a calci il piattino di un mendicante, un sottovaso di plastica verde, sporco. Davvero, in via X Giornate, a Brescia, la sede della Lega sta proprio lì, nella via più risorgimentale di una delle città più risorgimentali. Era il 1992, credo. Non si vestivano ancora di verde, non usavano il sole delle Alpi. Erano gli stessi di oggi.

Non me ne frega niente di vedere processati un bamboccione tonto e altri capri espiatori per qualche soldo rubato. Voglio vedere sotto processo una schiera di uomini politici che hanno costruito le loro carriere facendo di quel calcio al piattino un programma per il paese, declinato in leggi e pratiche abominevoli: Bossi-Fini e accordi con la Libia per i respingimenti su tutto. Li voglio alla sbarra per le centinaia di cadaveri sepolti nell’azzurro del Mediterraneo. E li voglio lì insieme a tutti coloro che, a destra e a sinistra, hanno scimmiottato le loro politiche.

Ma so di avere poche speranze. A chi li vota, poco frega delle loro porcate finanziarie, mentre frega molto di quelle politiche. Così, impotente, ho deciso di rovinarmi il pomeriggio frugando sul sito ufficiale della Lega. Ci sono tutti i manifesti dal 2000 ad oggi. Tra poster che incitano all’odio razziale e all’odio per gli omosessuali, tra cartelloni che millantano rischi di epidemie di AIDS e di estinzione per la razza padana, ne ho scelto uno da regalarvi:

lotta di liberazione contro l’apartheid. Come dire: la lega è come l’ANC e Bossi è il nostro Mandela.

Ma come vi permettete? Voi, canaglie, che disinfettate i sedili dei treni dove viaggiano le donne nigeriane.