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Restless (recensione)

Restless, pellicola del 2011 diretta da Gus Van Sant, racconta con delicatezza e romanticismo una storia d’amore adolescenziale: la vicenda di Annabel, malata terminale di cancro, e di Enoch, orfano di entrambi i genitori a causa di un incidente d’auto. Alla ragazza, quando i due giovani si incontrano, restano solamente tre mesi di vita, ma grazie all’amore “tre mesi sono un sacco di tempo”: non solo il tempo necessario a preparasi alla morte facendo ‘esercizi’ un po’ comici e un po’ strazianti, come frequentare funerali o recitare la scena del proprio decesso, ma anche il tempo per cercare una ragione dell’esistere nell’opera di Darwin, festeggiare Halloween, imparare il francese o diventare maestri di Xilofono. L’innamoramento tuttavia, insieme alla deformazione del tempo, porta anche la consapevolezza della fine, perché ogni amore ha un termine, trascorre, è destinato a divenire ricordo, una serie di immagini struggenti come le sequenze che si insinuano nella mente di Enoch mentre si appresta a pronunciare il suo discorso al funerale della fidanzata.

La consapevolezza della caducità dei nostri affetti porta una disperata inquietudine: il giovane straziato prende a martellate la lapide dei genitori, insulta il medico di Annabel, offende la zia che lo accudisce. Ma anche l’inquietudine più cupa può essere superata, come capirà Enoch, utilizzando al meglio il tempo, l’amore, facendo le cose che vanno fatte, in una parola vivendo. La pellicola traccia quindi una traiettoria che va dall’amore alla consapevolezza della morte, all’accettazione della fine, per tornare alla vita, a un amore questa volta maturo.

Il fantasma di un kamikaze giapponese accompagna, come un grillo parlante, il giovane protagonista nel suo percorso di formazione e nel momento più intenso del film lo invita a non andarsene in silenzio, come aveva invece fatto lui rinunciando a consegnare la lettera d’addio all’amata. Il rifiuto del silenzio diventa necessario per l’accettazione serena della morte che altro non è che il solo inno alla vita possibile.

La materia è affrontata dal cineasta americano con straordinaria leggerezza: dialoghi brillanti, il contrappunto comico costituito dalle discussioni e dai giochi con il fantasma, la delicatezza della fotografia, i costumi dal sapore vintage. Impareggiabile, come sempre, Gus Van Sant per la capacità di analisi e di messa in scena del mondo degli adolescenti.

Una chicca, nella prima parte del film, la riflessione critica sulla tragedia di Nagasaki, condensata in una battuta e pochi fotogrammi d’epoca: dolore per le vittime e assenza di solidarietà nei confronti dei carnefici.

 

P.S. La traduzione italiana del titolo, L’amore che resta, non ha nulla a che vedere con l’originale Restless, che andrebbe tradotto con Inquieto o qualcosa del genere. Credo che tale distorsione sia mirata a vendere il film come una di quelle storie di corna e quarantenni in crisi tanto care al cinema nostrano. Immagino con piacere il trauma di chi cade nell’imbroglio e, anziché una dissertazione su quale sia l’età in cui un uomo non resiste più alle cosce della segretaria, si trova ad affrontare una riflessione sulla morte.

Noi Marziani

Philip K. Dick

Noi Marziani

1964

Marte è da tempo una colonia della Terra. Coloro che vi sono giunti come pionieri tirano ormai stancamente a campare in un ambiente ostile, dove l’acqua è una risorsa preziosa quanto rara. I coloni sono oppressi, schiacciati dalla prepotenza dell’ONU, che impone rigide regole a commerci ed emigrazione per tutelare l’economia terrestre, ma anche dall’avidità dei potenti locali, abili trafficanti in grado di imporre il proprio cinismo in una società che si confronta con mille difficoltà e dove vige la legge del più forte. Le dinamiche tra ONU e colonie marziane riproducono, in chiave parodica, quelle tra Inghilterra e colonie americane, così come le dinamiche tra marziani venuti dalla terra e marziani originari, un popolo simile agli aborigeni chiamato bleekmen, riproducono le relazioni tra europei e nativi durante la colonizzazione.

In questo contesto, Arnie Kott, affarista spietato, ha l’idea di sfruttare a proprio vantaggio le capacità che Manfred, un bimbo autistico, sembra possedere nella lettura del futuro. Per riuscire nel suo intento, Arnie deve mettere a punto un sistema per comunicare con il bambino, che da sempre vive in completo isolamento, barricato dietro un muro di silenzio impenetrabile. Arnie decide così di assoldare un bravo riparatore, che gli costruisca una macchina per entrare in contatto con Manfred. Jack Bohlen, ex-schizofrenico che pare aver trovato su Marte una certa stabilità, viene scelto da Kott per svolgere questo compito. Nessuno si accorge però che Manfred, in qualche modo, è già capace di comunicare: tramite una sorta di telepatia, il bimbo può parlare con i bleekmen, individui con i quali condivide una condizione di marginalità. I nativi di Marte vivono alla giornata vagando incessantemente per terre desertiche, completamente privi di prospettive, aggrappati alle poche credenze religiose superstiti, elemosinando acqua e cibo, alcool e tabacco dai coloni. Alcuni bleekmen, addirittura, sono stati “addomesticati” e servono in casa di qualche ricco. Manfred, come tutti i bambini autistici, è rinchiuso in un centro di cura intitolato a Ben Gurion, dal quale i pazienti rischiano di essere riportati sulla Terra, in quanto secondo le direttive ONU la disabilità non andrebbe fatta attecchire nelle colonie. Il sistema di istruzione marziano è affidato alla Scuola Pubblica, un’agenzia formativa in cui gli insegnanti sono robotizzati e perpetuano una cultura che proviene dalla Terra e che si vuole immutabile. I bambini diversi non possono frequentare la Scuola Pubblica, che quindi li esclude, destinandoli al Ben Gurion.

Grazie alle sue visioni il bimbo autistico è in grado di afferrare ciò che giace oltre il fondale chiamato realtà, rimanendone terrorizzato. Gli altri personaggi su quel fondale invece si dibattono, poco consapevoli della propria condizione, incarnando quella che è la cifra di gran parte dei caratteri dickiani, cioè una certa tenera cialtroneria. Si è detto come la condivisione della marginalità consenta a Manfred di comunicare con i bleekmen, in particolare con Eliogabalo, servitore di Arnie Kott. Tramite questo contatto, le visioni di Manfred raggiungeranno, anche se solo parzialmente e percorrendo vie tortuose, gli altri personaggi. I reportage dal futuro di Manfred non conterranno però informazioni utili agli affari, alle speculazioni, saranno invece quadri di natura ben diversa, saranno il “putrìo”.

“Putrìo” è la sola, incomprensibile, parola che il bambino continua a ripetere quando è sopraffatto dalle visioni. “Putrìo” è il paesaggio indescrivibile, fatto di corruzione, decadimento, dolore e morte, che si schiude davanti agli occhi di Manfred. “Putrìo” è ciò che viene colto dallo sguardo dell’autismo, dallo sguardo della marginalità. Uno sguardo più efficace, in grado di penetrare bene a fondo nella materia. In grado di raggiungerne il nucleo della realtà, anche se questo nucleo ha l’aspetto di una specie di apocalisse. Dove gli altri vedono un mondo fatto di quotidianità, relazioni, progetti, Manfred non vede che un abisso di sofferenza. La malattia dà al bimbo facoltà di spostarsi sulla linea del tempo, di intuire il futuro e di padroneggiare il passato, cogliendo in entrambe le dimensioni temporali un’essenza di assoluta desolazione. La società marziana, che è in sostanza una riproduzione del passato, non ha futuro, o meglio, ha un futuro che, come il passato, come la storia, è intollerabile.

Il fiume dell’oppio (Recensione)

Amitav Ghosh

 

Il fiume dell’oppio

Neri Pozza 2011

 Il secondo romanzo della trilogia dell’Ibis, séguito di Mare di papaveri, ci proietta in Cina, nella Canton degli anni 1838 e 1839, alla vigilia della Prima guerra dell’oppio. Il Celeste Impero ha deciso un giro di vite nei confronti dei trafficanti stranieri, che si arricchiscono grazie alla vendita di una sostanza il cui consumo rappresenta ormai una piaga tremenda per la società cinese. I commercianti d’oppio, quasi tutti inglesi, ma anche un indiano, un parsi, cercano di resistere all’offensiva scatenata contro di loro dal mandarino che ha ricevuto l’incarico di stroncare la distribuzione della droga.

La ricostruzione dell’ambiente è dettagliatissima, quasi maniacale, frutto di un imponente lavoro di ricerca. La lingua è il pastiche di inglese e lingue orientali cui Ghosh ci ha abituato.

I personaggi si muovono su questo sfondo, più o meno coinvolti negli eventi: Bahram, il commerciante parsi, briga per evitare il fallimento certo che l’interruzione dei traffici di droga con la Cina rappresenterebbe; Paulette, giovane botanica, e il suo mentore Fitcher vanno alla ricerca di una camelia misteriosa; Neel, che chi ha letto il primo romanzo della trilogia conosce bene, prova a ricostruirsi una vita al servizio di Bahram; Robin, giovane pittore, cerca l’Arte e un Amico.

Se in Mare di papaveri Ghosh ha costruito una trama avvolgente, in cui fili narrativi convergono e si fondono, ne Il fiume dell’oppio è la “mollezza” del racconto, il suo lento e discontinuo dipanarsi, e impantanarsi, a farla da padrone. Allucinazioni indotte dal fumo, banchetti, ricordi struggenti di amori lontani, sogni di gloria più o meno fondati, ingabbiano i personaggi in una groviglio dolceamaro. L’atmosfera descritta da Ghosh è sospesa, surreale. Il romanzo, dalle consuete dimensioni corpose, rende con grande efficacia la surplace che precede l’esplosione di un conflitto. Le trame si infittiscono in una Canton apparentemente indifferente a ciò che sta succedendo, mentre la maggior parte degli uomini non pare avere consapevolezza piena di ciò che sta per accadere, sembra voler vivere in una bolla all’interno della quale ripetersi, in attesa dell’esplosione, “fino a qui tutto bene”. La zona di Canton dove alloggiano i mercanti stranieri pare una nave nel mezzo dell’oceano, calma piatta, qualcosa che deve succedere e non arriva mai. Per questo, sotto molti aspetti, Il fiume dell’oppio ricorda le atmosfere di quella che si potrebbe definire “non avventura dei mari del sud”, alla Corto Maltese.

L’affondo politico, immancabile, è in gran parte affidato ai dialoghi, nei conciliaboli più o meno formali, tra i trafficanti stranieri e alla sufficienza con cui le autorità cinesi vengono considerate da quelle occidentali. La brutalità dello sfruttamento economico, ma anche, e soprattutto, il disprezzo per l’Oriente, costituiscono il fondo nero del colonialismo, che  viene una volta ancora smascherato e messo alla berlina da Ghosh.

Mare di papaveri (Recensione)

Mare di papaveri
Amitav Ghosh

Neri Pozza 2008

Immagine

Primo volume della “trilogia dell’Ibis”, dal nome della goletta a bordo della quale convergono le vicende dei protagonisti, è un romanzo storico e d’avventura.
Vera protagonista del romanzo, secondo le parole dei traduttori italiani, è la lingua, uno straordinario pastiche di idiomi orientali e occidentali, di tecnicismi, di idioletti. Di tale caleidoscopico miscuglio molto va perduto nella versione italiana dell’opera, che predilige, com’è naturale, la fruibilità della narrazione all’eccesso di precisione nella resa di una lingua difficilmente traducibile. L’opera andrebbe dunque letta in lingua originale per essere goduta appieno.
Vi sono tuttavia altre ragioni per le quali vale la pena affrontare il romanzo, pur se in traduzione. Infatti Mare di papaveri è un’opera di grande valore sotto vari aspetti, ad esempio sotto il profilo narrativo. L’intreccio, anche se tronco, dal momento che il romanzo è il capitolo iniziale di una trilogia, è ben congegnato e avvincente. La vicende dei protagonisti sono esposte tramite una sorta di montaggio alternato che mantiene il giusto equilibrio tra esigenze del racconto e aspettative del lettore. I diversi fili narrativi convergono sino a incontrarsi al termine della seconda parte del romanzo, dedicata all’imbarco e alla partenza da Calcutta della  Ibis.
La goletta che dà il nome alla trilogia è una nave di fabbricazione americana, acquisita da un armatore inglese che intende utilizzarla per commerciare oppio e per trafficare coolies. Sono, questi ultimi, uomini in fuga dalla povertà dell’entroterra indiano, devastato dall’economia coloniale che ne ha fatto un’immane piantagione di papavero e destinati a un futuro da braccianti in condizioni di semi-schiavitù in qualche terra lontana. A bordo della Ibis si incontrano, a seguito di vicende diverse, i personaggi, tutti straordinari e un po’ strampalati, come si conviene a un buon romanzo d’avventura. Il marinaio ex-schiavo nero divenuto ufficiale, il raja decaduto, la vedova in fuga dagli obblighi di casta insieme al nuovo scandaloso e gigantesco compagno, il figlio oppiomane di un ricco mercante, insieme ai lascari che compongono l’equipaggio e agli altri caratteri del romanzo, sono figure talmente ben costruite da apparire credibili nonostante la bizzarria.
Il fondale storico è ricostruito con grande perizia e ricchezza di particolari, ma senza eccessi da erudito. Le vicende si svolgono nel 1838, alla vigilia del conflitto noto come “guerra dell’oppio”. È un periodo particolarmente significativo della storia indiana e consente riflessioni sulle origini dell’India moderna, nata dall’incontro tra culture diversissime tra loro. Ma non solo. La guerra dell’oppio segna infatti l’inizio del colonialismo occidentale in Cina e dà a Ghosh la possibilità di mettere in scena la natura feroce e aggressiva della presenza britannica nel sud-est asiatico. Le dinamiche commerciali che guidano la società sono descritte e condannate senza appello. Le grettezza degli occidentali è messa in scena con grande efficacia nei dialoghi e nelle descrizioni. Nel romanzo viene dato ampio spazio alla descrizione degli effetti sulla popolazione rurale indiana della scelta di indirizzare il territorio all’economia di piantagione, alla coltivazione di un prodotto voluttuario che non garantisce ai contadini il sostentamento fornito invece dalle attività tradizionali. La scelta di raccontare le sventure dei coolies evidenzia la necessità di studiare un aspetto non molto noto, in Occidente, della storia dello schiavismo. L’autore tratta questa materia scottante con fermezza, senza fare sconti, né  alla rapacità dell’Occidente né all’inadeguatezza della società indiana, ma anche con la leggerezza data dall’ironia e dalla magia del racconto. Indimenticabile la descrizione della cena offerta dal raja Neel a bordo della propria decadente reggia galleggiante al proprietario della Ibis suo creditore.
Grazie a libri come questo il romanzo d’avventura continua a svolgere uno dei ruoli fondamentali che gli è stato assegnato nella storia letteraria, continua cioè a essere un importante strumento di indagine della realtà del colonialismo, oltre che un impareggiabile strumento di evasione.