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Bar Mario

Ha sempre un certo fascino la città, al mattino, dopo le sconfitte della Nazionale: i turbini sollevano la polvere dal selciato dei borghi dietro l’Istituto Magistrale, il sole fa a spallate con le nuvole, gli edicolanti montano lenti gli espositori: tanto oggi si vende poco. Ha sempre un certo fascino la città, quando la Nazionale esce male al primo turno, come uno studente scagliato via a un esame prima ancora di avere il tempo di sedersi: qualcuno butta vuoti di birre nella campana verde del vetro mentre i baristi staccano le bandiere italiane appese con lo scotch sopra i cartelli scritti a pennarello: “Tutte le partite in diretta”. Dietro il registratore di cassa Mario, il titolare del caffè, per tutti Supermario, sta piegando meticolosamente il suo tricolore, appena ritirato dalla strada, per riporlo in un cassetto, prima di mollare uno stanco colpo di straccio al banco del bar. “Tocca aspettare gli europei del 2016, dov’è che li fanno poi?” “Ma che ne so. Senti, ma adesso chi ci viene più, a vedere tutte le partite in diretta?” “Esatto, chi ci viene?” Mi risponde Mario, che poi aggiunge: “Ho pagato, io, per far vedere le partite. Chi me li dà indietro i soldi adesso, Balotelli? Dovrebbero sequestrargli il Ferrari, a quello lì, venderglielo e risarcire un po’ di baristi.” Io, questo collegamento diretto tra la macchina del nostro centravanti e la sua scelta di investire su un prodotto dal rendimento incerto, quale i successi di una squadra raffazzonata in un mondiale di calcio, lo trovo un po’ azzardato, ma non glielo faccio notare, è già troppo furioso.

La radio, intanto, trasmette un’intervista a uno psicologo: “Ma un ragazzo di ventitré anni che cambia colore di capelli quattro volte in una settimana, secondo voi, è uno che sta bene?” Ha il tono davvero scandalizzato, il tipo, per questa storia dei capelli colorati. Mi dico che deve aver fatto il liceo classico dalle Orsoline e torno ad ascoltare Supermario, che carica il filtro di caffè e si sfoga: “È tutta colpa sua, ma si può far giocare un imbecille così?! Mica perché è nero, io non sono razzista, ma perché è un deficiente! Adesso fa anche la vittima, con ‘sta storia che è nero. E allora?” Assaggio il caffè, nerissimo, è squisito. Guardo Mario: “Buonissimo il tuo caffè. Senti, sono un po’ di anni, ormai, che quando le cose, in questo paese, non girano bene si va a cercare un capro espiatorio che molto spesso, guarda caso, ha la pelle nera. Per questo io sto con Balotelli. Per questo e per il fatto che ha lo sguardo dolce e svalvolato dei miei alunni peggiori. Perché ha un accento bresciano più pesante del mio, come quasi tutti i neri che ho conosciuto. Perché scandalizza gli psicologi che hanno studiato dalle suore e perché ha un tiro davvero potente, oltre a una notevole fantasia e duttilità tattica.”

Mario mi ascolta, poi sputa e tira fuori i conti del bar, quindi mi volta le spalle e si va a sedere a un tavolino libero.

La grande bellezza

Avete presente quelli che non seguono il calcio, ma in occasione dei mondiali diventano tifosi sfegatati della Nazionale? Vanno al supermercato per comprare uno di quei fusti di birra Peroni fatti a forma di pallone, scendono dal sarto a rifornirsi di stoffa per mettere insieme tricolori usa e getta da attaccare sopra la ruggine della ringhiera del balcone, con il rosso rigorosamente a sinistra. Si piantano sul divano davanti alla partita con i gomiti sulle ginocchia e una conca dell’Ikea piena di patatine San Carlo stretta tra le cosce. Occupano sempre lo stesso posto, perché sono scaramantici e quando Grosso ha buttato dentro il rigore nel 2006 stavano seduti da quella parte: non si sa mai cambiare porti male. Capiscono poco di quello che accade in campo: esultano come dei pazzi per gol che vengono prontamente annullati, ti domandano come mai il C.T. non butti nella mischia Totò Schillaci, magari al posto di quel pennellone di un centravanti che continua a frignare. Insomma, ci siamo capiti: individui così, del resto, ce ne sono a bizzeffe, altrimenti non si spiegherebbero i venti milioni di telespettatori che questi eventi riescono a mobilitare.

Una variante del tifoso da mondiale è il tifoso da Olimpiadi. È un individuo leggermente più raro, questo: anzitutto perché deve restare impegnato per almeno due settimane diverse ore al giorno, poi perché si deve sparare competizioni insostenibilmente noiose, come le gare di badminton o di windsurf. Il tifoso da Olimpiadi non capisce nulla di come funzionino i diversi sport, si affida completamente all’esperienza del cronista e, quando questi annuncia la medaglia, salta in piedi urlando: “Abbiamo vinto, abbiamo vinto. Cazzo!” Quindi segue commosso le premiazioni, fissando il tricolore garrire al vento mentre lento risale l’asta sulle note della marcetta di Mameli. In queste occasioni un filo di lacrime finisce per rigargli il volto. Se lo incontri al lavoro il giorno dopo, prima ancora di salutarti, ti chiede: “L’hai visto eh, quello lì con la carabina? Che bronzo, dico che bronzo, peccato sia solo bronzo, dico, ma vale come l’oro. Gli italiani sono sempre stati forti nel tirassegno!”

Una variante del tifoso da mondiale, e del tifoso da Olimpiadi, è il tifoso da Oscar. Il tifoso da Oscar, a differenza dei precedenti, non segue la competizione, ma apprende l’esito a giochi conclusi. Del resto la notte degli Oscar è di notte, anche se la notte americana non si capisce bene come mai sia di notte anche in Italia. Il tifoso da Oscar, come i precedenti, vede nella conquista di un trofeo la conferma di quanto ha sempre supposto: l’italica superiorità si afferma nonostante tutto. Nonostante la corruzione dilagante nel nostro paese (con la quale non abbiamo nulla a che fare), nonostante la congiura internazionale antitaliana (ci sono sempre “biscotti” in agguato, mai fidarsi di gentaglia tipo francesi, spagnoli, tedeschi, ecc.). Gli italiani, secondo i tifosi più illuminati, vincono anche se non se lo meritano, anche se non si impegnano, perché hanno quel qualcosa in più, quel briciolo di Genio che ci arriva dritto dritto da Leonardo, da Raffaello, da Michelangelo e da Donatello.

I tifosi da Oscar esultano su Facebook e su Twitter. Quindi escono di casa, vanno a comperare birra e patatine, per poi piazzarsi sul divano, un caldo plaid a quadrettoni srotolato sulle gambe, in attesa che su Mediaset passino La grande bellezza.

Il fascino indiscreto della sconfitta

« Le troiane Porte Scee e la porta di Mayer si confondono nel cervello di tutti. »

(Gianni Brera, Storia critica del calcio italiano])

“Perché non tornare a quel 3-5-2 della partita d’esordio, in cui la Nazionale aveva contenuto con efficacia le Furie Rosse?” Chiede un giornalista dagli occhialetti tondi e l’alito pesante.

“Perché far scendere in campo giocatori con le pile scariche, buoni solo a infortunarsi dopo una manciata di minuti, anziché gettare nella mischia forze fresche?” Salta su un critico avvizzito in completo di lino azzurro stazzonato.

La risposta dell’allenatore è pronta, infatti lo sa che avrebbe fatto meglio a cambiare, mica è scemo: “Sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti di chi ci ha portato sino a qui.”

C’è qualcosa, nel calcio, che va oltre il mero calcolo e che lo rende uno sport, quasi, unico. Non lo saprei ben definire, potrei chiamarlo passione, nel senso di sentimento. Qualcosa che fa a pugni con certe logiche “aziendaliste”, con il buon senso, qualcosa che ha più a che fare con il coraggio. Del resto, una vittoria costruita sulla razionalità e la misura, non può, sotto il profilo narrativo, nemmeno essere paragonata al successo di un gruppo gettato allo sbaraglio contro una macchina perfetta. Il mister, che benché da sempre aziendalista, è grande uomo di calcio, lo sa bene. E così dentro il terzino zoppo, il centrocampista rotto, il mediano sgonfio e, soprattutto, gli attaccanti matti. Una scelta di cuore: o si vince con questi, per chissà quale miracolo, o non se ne fa nulla. Si perde, come nel 1970, nella finale contro i Carioca dopo il trionfo della “partita del secolo”.

È andata così: quattro ceffoni e la certezza di non avere chances dopo pochi soli istanti di gioco. E se, in un primo momento, la doccia fredda mi ha tolto le parole, ora posso dire che è stato stupendo, perdere così smisuratamente, come raramente si vede in una finale, partita tattica per eccellenza. E ancor più bello è sapere che il Commissario Tecnico ha scelto, consapevolmente, l’azzardo, l’estetica, ciò che dona a certi eventi sportivi una forza mitopoietica unica, contro ben più solide ragioni di tattica. Anche perché la Spagna era comunque troppo forte, solo una pazzia la poteva sconfiggere.

E visto che, complice il torneo polacco-ucraino, le metafore calcistiche in politica hanno spopolato, ecco l’auspicio di Emiliano B per i tempi a venire, una bella pazzia che dia una scossa a questo paese vecchio: il rilancio degli investimenti nell’istruzione in tempi di spending-review, con un piano straordinario volto soprattutto al contrasto dell’abbandono scolastico, in un paese dove il 36% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Un rilancio che preveda importanti spese per l’integrazione delle diversabilità, un sostegno deciso alla ricerca, il finanziamento delle borse di studio a quei due terzi degli studenti universitari idonei che non percepiscono ciò che gli spetta. E tutto il resto, ce n’è a bizzeffe, che a molti, in tempi di controllo dello spread sembra follia. Non si può perdere per sempre. E comunque, ripeto, anche la sconfitta ha un suo fascino, che non è per tutti ed è smodato, scomposto, ma è irresistibile.

Se gioca Cassano spengo la TV

Che schifo! Che spettacolo indecente!

Provo pena per il calciatore, che non è certo una cima e si è fatto trascinare dall’intervistatore. Disgusto sincero e profondo per il giornalista che gli ha fatto la domanda ridacchiando e immaginando la risposta. Disprezzo profondo e sincero per la platea di idioti che hanno sghignazzato. Vergogna per il fatto che in qualche modo, da italiano, sono rappresentato da questa nazionale.

Mi dispiace per Prandelli che è una brava persona, ma io, se Cassano scenderà in campo con la maglia azzurra, spegnerò la TV.