Archivio | gennaio 2014

Di certe teste ben fatte

120Il consulente per la did@ttic@ digit@le è un tipo che la sa lunga. Parla spiccio e infila una parolaccia qua e là, per sollecitare l’uditorio quando l’attenzione cala. Dosa con sapienza le parole in inglese, senza sbroffare troppo, ma segnando bene la distanza tra lui e i comuni mortali. Il consulente, nella vita, ne deve avere viste cose che noi umani non potremmo immaginarci: sistemi scolastici efficientissimi, laggiù in America; studenti cyborg con competenze digitali raffinatissime, in Finlandia; insegnanti virtuali coreani preparatissimi, che praticano le tecnologie come le loro tasche e sono anche molto, molto sexy. In effetti, più che un corso, quello tenuto dal consulente è un mix tra un diario di viaggio e un bestiario postumano. Chissà dove vuole andare a parare.

Durante la pausa caffè lo becco a confabulare con un suo aiutante, un tipo dalla barbetta nervosa che nell’economia della lezione riveste il ruolo di colui che gli cambia le slides. Non resisto e allungo l’orecchio. “Questi qui,” fa lui arricciando il naso: “ti dicono che lo sanno usare il tablet, perché magari lo usano per controllare la posta o firmare il registro, ma in realtà non ci sanno fare mica un cazzo.” Questi qui saremmo noi, docenti cialtroni della scuola italiana, incapaci e inguaribilmente refrattari di fronte ai prodigi della tecnica.

Torniamo in aula e l’autocelebrazione riprende e, dopo nuovi racconti di esperienze presso le più grandi organizzazioni mondiali, di partecipazioni a programmi spaziali e di viaggi lisergici in compagnia di Steve Jobs, si arriva al punto. Perché i tablet a scuola? Il tipo ci vede chiaro: “Come diceva Madre Teresa di Calcutta, basta con le teste ben piene, vogliamo teste ben fatte! I nostri studenti, cioè, non devono mica imparare le cose, ma imparare ad andarle a prendere quando gli servono. Non gli serve sapere tante cose. Possono anche saperne pochissime. Alla bisogna andranno a vedersi quello che gli serve. È la costruzione della conoscenza che conta, cioè, il costruttivismo di coso, di Bruno.” Scrosciano fragorosi applausi liberatori, la tortura è finita.

Il consulente è in buona compagnia, l’idea di sostituire la cultura con le istruzioni per l’uso di una macchinetta di vetro e alluminio è piuttosto diffusa. Così come è diffuso l’uso di fondarla, in modo piuttosto cialtronesco, su presupposti teorici che affermano ben altro. Lo guardo andarsene in Segway, petto all’infuori. Ripenso al suo “questi qui” e non posso che augurargli il male. Gli auguro di viverci, un giorno, nel suo bel mondo fantastico dove nessuno studia e nessuno sa niente, ma tutti tengono lo smartphone a portata di mano, così, per “andare a vedersi le cose”.

Un mondo dove un chirurgo, prima di chiedere il bisturi, andrà a vedersi dove sta quella maledetta appendice che deve asportare, che non se lo ricorda mai. Dove le guide, nei musei, andranno a vedersi su Wikipedia le opere da raccontare. Dove gli automobilisti, prima di fermarsi, andranno a vedersi cosa diavolo vuole dire STOP con Google Translate. Dove tutti, indistintamente da professione e studi compiuti, parleranno esclusivamente di idiozie, e penseranno solo scemenze, con le loro teste ben fatte, ma vuote.

Il Compagno del Sindacato

200812230540_rosso_rubino_atvIncontro il Compagno del Sindacato, un ex-collega, in via D’Azeglio, verso sera. “Ma dai! Emiliano, com’è la scuola nuova? Come ti trovi? Prendi un caffè?” “Mah, un caffè a quest’ora? Piuttosto un prosecco!” Ci infiliamo nel caldo vaporoso di un aperibar. Il Compagno del Sindacato, vero e proprio pachiderma, attraversa la sala travolgendo una povera cameriera con l’orecchio deturpato da un dilatatore grosso come un’arancia. Quindi, con un vigoroso lavoro di corporatura, sgombera il banco disperdendo un gruppo di gracili e stilosi universitari. Finalmente, dopo esseri grattato il pancione con aria soddisfatta tuona: “Cos’è che volevi tu, fighetto? Ah, già! Barista? Un prosecco per il ragazzo, qui. E una pallina di lambrusco per me.” Poi piazza il gomito sul marmo e si passa quattro dita nel barbone, tirando forte per sciogliere i nodi. In alto i bicchieri, brindiamo a Palmiro Togliatti. Ma lui, per troppa foga, frantuma con il bordo spesso del suo calice il mio esile flûte. Rimango con il vetro del gambo in mano, a bocca aperta, gli occhi increduli piantati in quelli del Compagno del Sindacato, due buchi neri, mefistofelici, nel fondo dei quali, nonostante tutto, la passione rivoluzionaria brucia mai sopita. Lui non fa una piega, si sporge oltre il bordo del banco: “Barista! Guardi che ci ha dato un bicchiere rotto! Dovrebbe farcene un altro per favore!” Poi attacca con i problemi della scuola, con il contratto bloccato, con gli scatti. Passa in rassegna la situazione politica nazionale e internazionale, con analisi doviziose e ben saldate a terra, come le care e vecchie querce, così solide sulle loro radici. “Ma ti pare,” mi fa venendomi sotto con il suo quintale abbondante: “Hai sentito questa faccenda del cognome? Che adesso faranno una legge che anche le donne possono trasmettere il cognome ai figli?” “Mi sembra giusto,” gli dico: “Un diritto in più è sempre un diritto in più. I bambini che ora sono considerati illegittimi, inoltre, non saranno più i soli portare il cognome della madre, non avranno addosso questa specie di stigma.” Lui scuote la testa, gocce di sudore si sganciano a pioggia dalla fronte segnata da rughe profonde, per condire un paio di spritz e i salatini parcheggiati momentaneamente sul banco. “No, ma smettila Emiliano! Ti pare che con la crisi, la disoccupazione, la povertà, i salari bassi, la fame che bussa, ci si debba occupare di queste bazzecole? Non mi dirai, collega, che ti frega anche dei diritti delle coppie di fatto, o dei gay e tutte quelle robe lì. Ma credi che ai lavoratori cambi qualcosa, se perdiamo tempo con certe questioni? Ci sono cose più urgenti, le priorità!” Mi prende per la giacca e, per farmi capire bene il discorso, mi solleva anche un pochino da terra e così, un po’ sopraffatto, non ho spirito di replicare, di fargli notare che, magari, ci sono coppie di fatto fatte di disoccupati, o gay che sbarcano il lunario lavorando agli impianti di colata continua. E poi non gli riesco a spiegare che i diritti, tutti i diritti, sono urgenti, sono tutti priorità. E non c’è niente da aspettare, da mettere da parte: li vogliamo tutti e subito. Lui aspetta una risposta, vuole che gli dica che forse ha ragione lui: prima il pane e poi le rose. Sto zitto.

Il Compagno del Sindacato mi ha domato, mi molla una gran pacca sulle spalle: “Ti saluto, Emi. Su con la vita, che alle prossime elezioni, con Matteo, ce la facciamo!”

Rimango lì, ancora un poco stordito e lo saluto con la mano: “Ma Matteo chi?”