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Viale del tramonto

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Che cosa rimane, di un atleta, dopo il ritiro?

Un uomo che guarda oltre il vetro la città gonfiarsi paziente di pioggia implacabile e fine. In casa c’è la luce accesa, lo si può vedere dalla strada, una figura appesantita che riempie quasi tutta la finestra. Sul piatto gira graffiato l’LP di Giant Steps. Anche stare in piedi costa fatica, se le ginocchia fanno male; tutti quegli interventi: ricorda che a un certo punto aveva pensato che non avrebbe più potuto camminare. Guarda fuori, oltre le gocce che rigano il vetro, la città del declino. Le sue strade sporche, trascurate, le sue aiuole macilente, i suoi lampioni pallidi, spenti qua e là. I cumuli di neve nera. Quelle che erano state mille sale cinematografiche ora sbarrate, chiuse, i teatri vuoti. I caffè deserti non sono che l’ombra di ciò che erano stati fino a poco tempo prima, così brulicanti di quella vita spocchiosa e borghese da pétite Capitale. Le architetture spropositate, spesso abbandonate, sfregiano il volto sincero e stupito della pianura. La pioggia gelata ne leviga gli scheletri già stanchi. Auto troppo grosse e inquinanti, comperate a rate, seguitano a rincorrersi sui viali. Gli stessi viali contesi da bande di pusher, dalle ambigue luci al neon di improbabili centri massaggi, dei Compro Oro. Le biblioteche sono in lenta dismissione, i negozi in disfacimento. I cartelli di VENDESI e di CHIUSO ora hanno raggiunto anche il Tardini. Già, anche lo stadio, la sua arena, con i suoi riflettori e l’urlo fragoroso della folla in estasi per i suoi pregevoli gesti tecnici, per lui, lui che guarda oltre il vetro con le gambe tutte doloranti. Con le caviglie gonfie.

Le luci della ribalta, le corse ebbre sotto la curva, le interviste, le foto sulle riviste, la sera della Prima al Regio. Il primato, il successo, i festival, la Capitale, la fasulla grandeur. Il crack, il dolore, i dottori, i dolori. I cinema chiusi, i teatri vuoti, gli appartamenti sfitti e invenduti, i parchi abbandonati a un degrado lento. La vita dell’ex, i racconti sempre più fantasiosi, le autobiografie, le visite nelle scuole. Un’agenda fitta all’inizio, poi sempre meno intensa. Alla fine la solitudine dell’ex, quando in giro non ti riconoscono più: solo il nome, forse, gli ricorda qualcosa, ma probabilmente te lo dicono solamente per cortesia.

Sic transit gloria mundi. La grandezza non è che un clamoroso abbaglio se non ci sei nato tagliato. Trane è da un po’ che ha smesso di soffiare nel sax. La puntina sfinita è lasciata a ticchettare sul disco. Si trascina lento verso un interruttore, allunga la mano, spegne la luce. Click. Si siede in poltrona ad aspettare il mattino, senza sonno. Guarda diritto davanti a sé attraverso il buio della stanza, vigile.

Ricadute

meduse_1La descrizione del mondo naturale è impresa oltremodo ardua. Il naturalista somiglia, nella mia idea, a Carlo Emilio Gadda: una specie stramba di implacabile classificatore che si prova a ficcare tutto il mondo dentro una cassettiera gigantesca, afflitto dal problema che molti cassetti non si vogliono chiudere e che altri, proprio quando sembrano sistemati, riesplodono fuori perché troppo carichi. È lì, il nostro naturalista, che spinge con un ginocchio i miceti al loro posto, mentre con il palmo della sinistra aggiusta il comparto dove ha sistemato le regole che definiscono i rituali di accoppiamento tra meduse. Davvero un lavoraccio, tanto improbo che parrebbe una battaglia persa prima ancora di essere combattuta: la natura inventa misteri ingarbugliati per beffarsi dell’uomo, della sua stolidità e limitatezza. Per esempio: esiste qualcuno che può spiegare se l’acqua faccia male o bene alle forme di vita vegetale? I contadini, infatti, si disperano per le piogge di questa primavera, che hanno disastrato le semine e segnato in maniera ineluttabile l’annata agricola. Tuttavia, a guardarla dalla città, tutta quest’acqua sembra capace di rendere incredibilmente fertile qualunque grammo di terra. Se, indossati un paio di stivaloni in gomma alti almeno al ginocchio, vi fate un giro per i borghi del centro trasformati in canali o vi abbandonate al romanticismo di un’escursione in barca a remi nel laghetto che fu piazza Garibaldi, noterete che la vegetazione cittadina ha assunto incredibili dimensioni e vigore. Erbacce alte fin oltre un metro scappano da ogni crepa dell’asfalto, i rampicanti avanzano a vista d’occhio sulle pareti inzuppate, i tigli buttano rami nuovi ogni giorno, mentre le radici si gonfiano e staccano il cemento dei marciapiedi a grosse scaglie. Sul mio balcone il coccio dei vasi, il ferro della ringhiera, il cotto del pavimento sono ormai invisibili, ricoperti da frasche annodate e ribelli che ricadono così abbondanti che l’impressione è di stare in una foresta. Il cactus sul tavolino, grande quanto un ditale poche settimane fa, ha ora raggiunto le ragguardevoli dimensioni di una mazza da baseball. L’acqua ha tanto cambiato il volto della città che sembra di essere in un mondo, come scrisse Michele Mari per condensare in una formula gli ambienti salgariani, dove tutto è iperbolico.

L’acqua, dunque, è un bene o un male per le forme di vita vegetale? La risposta è boh!

Tuttavia, se è difficile quantificare e descrivere la ricaduta delle precipitazioni sulla flora padana, è però vero che le scienze hanno fatto tali progressi da essere in grado di fornire risposte soddisfacenti per innumerevoli altre questioni.

Ci sono invece grosse difficoltà nell’affrontare problemi per la cui soluzione la scienza non può offrire supporto. Un esempio, per restare nel campo delle ricadute di un dato elemento in un certo contesto: l’Assessore alla Cultura del Comune ha deciso di sopprimere il Parmapoesia Festival, una delle più importanti manifestazioni culturali della città, poiché non è chiara la ricaduta della rassegna, non sono cioè stati quantificati i benefici complessivi eventualmente apportati alla città. Il ricordo che ho delle otto precedenti edizioni del Festival è fatto di serate sempre partecipate, dibattiti, letture, grandissimi protagonisti. Suppongo quindi che la poesia abbia portato in dote alla città qualche prenotazione in albergo, qualche cena al ristorante, oltre ai tagliandi d’ingresso, ai cocktail e alle vendite dei volumi. Sempre che queste siano le ricadute che l’assessore vorrebbe quantificate, perché altri effetti della poesia, che riguardano direttamente la qualità della vita di ciascun cittadino, sono proprio difficili da misurare. In ogni caso la decisione è presa: niente più poeti in città, dunque, a disegnare mondi possibili nelle sere tiepide di giugno. Niente poesia per questo centro che boccheggia sotto una cappa pesante di grigio rigore, un’austerità soffocante e ottusa che, sebbene sia contrappasso adeguato alla folle, gaudente e piuttosto idiota grandeur provinciale della precedente amministrazione, rischia di segnare per sempre Parma. Orfani dei poeti, caro Assessore alle ricadute, interrogheremo il cielo, in quelle sere di giugno. Interrogheremo quel cielo dove le stelle sono cancellate dal fumo, la cui ricaduta è invece purtroppo ben prevedibile, che lento sale da Nord, dal lungo camino del nuovo inceneritore a Cinque Stelle.

I grilli in città

è colpa mia
perché non prendo posizione
è colpa mia
mi crolla il mondo addosso
se ci penso
non me ne frega niente

Il Teatro Degli Orrori

Quando i grilli cominciarono a cantare in città, qualcosa nella testa di M. si ruppe per sempre. Se ne accorse al banco del fruttivendolo: gli asparagi erano davvero a buon mercato, un euro al mazzo, ma le fave col pecorino erano da sempre la sua passione. Possibile che gli asparagi, venduti a quel prezzo, fossero buoni? Difficile. Possibile che lo fossero le fave? Lì, nel mezzo della Piana Padana? Difficile. M. guardava i mazzi ordinati alla sua destra e le cassette stracolme di legumi alla sua sinistra. Marcello, il fruttivendolo, che da un po’ lo fissava con aria interrogativa, lo vide grattarsi furiosamente la capoccia, frugarsi nelle tasche, estrarre il telefono, borbottare uno “scusi” e darsela a gambe fingendo goffamente di rispondere a una chiamata. Gli urlò dietro, Marcello: “Ma signor M., lei deve scegliere qualcosa! Prenda queste fave, sono belle grosse! O questi asparagi, guardi che freschi che sono! Mi ha fatto perdere un sacco di tempo, mica può scappare così!”

Ma M. non tornò indietro. Giunto a casa si stravaccò sul divano imbarcato del salotto, era presto per pranzare. Allungò i piedi e afferrò i due volumi che stavano sul tavolino: un romanzo minore di Philip Dick e un saggio su Michel Foucault e la critica postcoloniale. Aprì il primo, tutti quei precog e quegli psi… cominciava a perdere il filo del racconto. Passò al saggio, ma non aveva tempo per immergersi in una lettura così impegnativa. Poco male pensò, anticipare il pasto gli avrebbe allungato il pomeriggio: avrebbe avuto tempo per andare in palestra, o avrebbe finalmente sistemato le piante che da giorni agonizzavano in terrazzo. Tirò con convinzione lo sportello del frigorifero e allungò famelico una zampa su un grosso barattolo di tonno a filetti, aperto da soli tre giorni. Stava per richiudere quando vide le uova: su cinque, tre dovevano essere già sode, le aveva bollite qualche giorno prima. Già, ma quali erano quelle sode? Di rompere un uovo e trovarlo crudo non ne aveva voglia. Però si ricordava la storia di un tale che aveva sofferto le pene dell’inferno per colpa di una scatola di tonno aperta da giorni. Che fare? Insomma doveva decidersi. Non poteva starsene lì, anche perché l’odore che usciva dallo sportello aperto del frigo lo avrebbe steso nel giro di pochi secondi.

Driin, driiiin, driiiiiiiin… Il telefono, grazie al cielo. Ricacciò dentro il tonno e corse a rispondere sbattendo l’anta del frigorifero. “M.?” “Sì, ciao sono Marco. Senti M., ci vieni a giocare a calcetto oggi pomeriggio? Ci sono anche Martino, Mario e Manuele…” “mmmm… non saprei sai, pensavo di andare in palestra, certo che il calcetto…” “Dai vieni! C’è pure Mirco. Deciditi, su! Forza, scegli!” “Dai, non lo so. Facciamo che ti richiamo dopo, va bene?” Si accorse che stava sudando. Si sedette. Tirò fuori dalla borsa il giornale che non aveva ancora letto: sulla prima pagina giganteggiavano due facce, sotto la scritta Ballottaggio Bernarotti Pizzazzoli: i grilli cantano in città. Più sotto l’articolo: I cittadini dovranno scegliere tra il signore dell’asfalto e l’alfiere del Grillo qualunque. Questo l’esito delle consultazioni… I cittadini… anche lui, quindi! Accese il pc, scrisse su Facebook che lui non votava al ballottaggio. Non sapeva chi scegliere. Gli amici lo bombardarono di “ma come?” e di “sei matto?”. “La democrazia…” “turati il naso!” “vota questo!” “vota quello” “largo ai giovani” “Forza Esperienza”. C’era chi paragonava, facendo uso a dir poco discutibile della storia, Pizzazzoli a Picelli. C’era chi diceva che chi non vota è contro la democrazia. Che chi non sceglie è meschino. Si sentiva anche un po’ offeso M., all’inizio. Poi cominciò a dar ragione agli altri, a convincersi: bisogna scegliere per forza, per forza, anche se pare impossibile. Non sei un uomo M., se non scegli. Consegni la città ai qualunquisti, se non scegli. Fai costruire un inceneritore nella food valley, se non scegli. Sei un coniglio M. Sei una carogna. Per colpa tua la democrazia se ne va a quel paese. Meriti di …

La sera lo sorprese a fissare il gancio del lampadario dove aveva fissato la corda, il viso pallido illuminato dai LED dello schermo del computer. Si chiedeva: “Reggerà?” La finestra era aperta, di sotto il vuoto e poi il cemento del vialetto, ma a soli dieci metri di distanza. M. si sporse: “Se mi tuffo di testa, forse. Ma poi non è che mi rigiro in volo? Che poi atterro con le zampe e finisco in sedia a rotelle?”. Meglio riflettere ancora un po’. Sistemò una sedia sotto il cappio.

Si sedette. Doveva decidersi.