Archivio | marzo 2015

L’ortomercato dei famosi

Emanuele_Filiberto_di_Savoia_orto-mercato_06Il sapore della terza Marlboro si mescola al residuo di caffè corretto Nardini, mentre comincio a slacciare il cellophane pesante che protegge il banco nelle ore di riposo. L’alba dista ore da questo capannone al neon dove iniziano a risuonare le prime urla, sberleffi, insulti, bestemmie. Fracasso di cassette tolte di mezzo a calci, gas di scarico, uomini assonnati intirizziti nelle giacche di pile consumato. Uno molla un peto sonoro, rimbombano sghignazzate, c’è chi gli fa eco con un rutto. Ecco Gigi, il grossista del banco di fianco al mio. Mi soffia un bacio con fare ammiccante tra i denti marci: “Allora l’hai fatta andare la bistecca ieri sera?” e mima l’atto con la mano destra posata sul pacco. Gli rispondo muovendo a stantuffo il braccio destro e fischiando come una locomotiva: “Se vuoi te ne trovo una anche a te…” Qui siamo tutti affiatati. La vita del mercato ortofrutticolo a me piace anche se è dura e c’è da spezzarsi la schiena, questo è sicuro, e c’è da abituarsi a saltar giù dal letto prima ancora di aver preso sonno, da gelarsi le chiappe o da morire di freddo a seconda della stagione. Certo che a pensare di arrivare alla pensione così… boh, non lo so, mica voglio andare avanti così tutta la vita. Comunque non mi lamento, è un ambiente stimolante, dove si possono fare conoscenze utili per entrare nel mondo che conta. Del resto, qui al mercato, sgobbano anche i vip. I figli del ministro Polletti, per esempio, fanno movimentazione merci. Hanno messo su bicipiti grossi come angurie e tirano madonne che mi vien la pelle d’oca anche a me, che non sono certo uno fine. Li guardo lì, che sudano con gli altri, e penso: “È bello che gente importante, che non ha certo bisogno, faccia andare le mani con noi comuni mortali.” Questo, garantito, è un ambiente altamente formativo per ricconi. Che vanno al liceo, imparano un sacco di libri, ma poi vengono qui a guadagnarsi la pagnotta. Perché non fa mica male a nessuno un po’ di lavoro. Chiaro? Magari se lo ficcassero in testa tutti quei genitori che piazzano i figli a spinellare davanti alla play per andarsene a fare il turno in fabbrica, in magazzino o al supermercato in santa pace. Tantissimi uomini politici si sono fatti le ossa al mercato ortofrutticolo. Qualcuno lo dice tranquillamente, come per esempio l’ex ministro Bruschetta che si è vantato degli anni migliori della propria vita trascorsi caricando e scaricando autocarri. Qualcuno è più pudico, e magari lo nasconde. Ma, per esempio, dove credete che se le sia fatte quelle belle spalle larghe, e quella solida preparazione tecnica, il buon vecchio Francesconi? E la cultura del lavoro, la passione per gli orologi di pregio, la famiglia Fufi, dove pensate che l’abbia appresa? Tra i bancali, no? A volte, a pensare alla gente con cui potrei avere a che fare, senza saperlo, qua dentro, io mi sento in imbarazzo. Perché è proprio un privilegio, cavoli, un’opportunità, avere a che fare con questa gente qui.

Io ai figli di Polletti non l’ho detto, ma sono un po’ contrario alla proposta del loro papà. No, perché insomma, a me piace quest’aria esclusiva che si respira qui. Se mi mandano tutti quegli studenti figli di nessuno d’estate a lavorare, mi rovinano l’ambiente. Voglio dire: adesso magari assumo uno e, per dire, la probabilità che sia figlio, per esempio, del presidente Ronzi è bassa (per carità), ma comunque significativa. Se facciamo venire qui cani e porci, come dice Polletti, la probabilità che mi venga il figlio di Ronzi diventa infinitesimale. No. Non va bene. Quando in troppi bussano alla porta bisogna anche saperla sbattere.

A luci spente

microfono_originalNon ce ne sono mica più tanti, come lui, in giro. Capelli biondi stopposi rovinati da anni di tinte sconsiderate, barba trascurata e voce roca, modulata da corde vocali spesse, scartavetrate da pacchetti e pacchetti di Marlboro: di rockers veri oramai se ne vedono pochi. Una serata qua e là, sempre più rara, sempre meno pagata, in locali sempre più fuori città, sempre più spopolati. Il pubblico ingrigisce e guarda l’orologio mentre in scena è il suo tormento, aggrappato all’asta del microfono, come d’abitudine. Un pubblico che dopo vent’anni ancora scatta foto ai suoi concerti, perché deve esserci pure un modo per usare l’iPad oltre che per leggere la mail aziendale.

Una serata ogni tanto, il magazzino tutte le sante mattine: bancali da spostare, da scellophanare, da sbancalare, muletti che corrono rimescolando cartacce e cicche spente sul pavimento di cemento verniciato di verde. I compagni insopportabili: le volgarità nel dialetto greve di Giovanni, i video sul telefonino di Mohammed, così sconci da prendere allo stomaco. Il pudore imbarazzato di Ion, che butta un occhio per educazione, ma senza guardare. Il capo che urla di piantarla di cazzeggiare, che lì dentro lavora solo lui. Il pubblico uno se lo sceglie, i colleghi no.

Sullo stradone stasera sfila una fiaccolata per la legalità. I cittadini del quartiere Nord si lamentano di non poter più uscire di casa. Troppi spacciatori. Ora basta! C’è scritto così, sui vecchi lenzuoli retti da ragazzi strizzati in bomberini neri. Più controlli, che cosa ci fanno tutti questi stranieri per la strada? Domande scritte a pennarello su cartelli improvvisati, trasportati dalla pompa della Erg fin sotto il ponte della ferrovia. Qualcuno, intervistato dalla TV locale, mette in guardia dal pericolo che le ragazze, un giorno, debbano indossare il burqa anche in Italia. Fa lo slalom tra la gente che manifesta ordinata, schermando la fiaccola dal vento con la mano libera. È in leggero affanno, in ritardo per le prove, la chitarra nella custodia rigida, con sopra gli adesivi scoloriti. Il tipo della TV lo adocchia da lontano, gli viene incontro con tutto il suo quintale abbondante avvolto nel completo d’ordinanza. Deve averlo riconosciuto, c’è stato un tempo in cui era piuttosto celebre in città, e l’occasione gli è sembrata interessante: l’intervista al musicista ribelle in corteo per l’ordine e la legalità: «Anche tu giù in strada questa sera?» Oppure: «Quanto ci si sente minacciati, a vivere qui, in un far west di illegalità, immigrazione e fondamentalismo?» Meglio evitare.

Svicola via tagliando per una traversa male illuminata. Via da chi per questa sera è No al degrado, oggi ci riprendiamo le nostre strade e poi, domani, torniamo a specchiarci lungo interi pomeriggi nelle vetrine del Centro commerciale. Via da chi teme il burqa perché già ne indossa (o ne fa indossare) uno, ogni giorno. Via da chi nella buona e nella cattiva fede chiama legalità il razzismo. Le lampadine a incandescenza della sala prove mandano una luce fioca, ma calda. Ci sono i pezzi nuovi da risistemare. Le stramaledette cover da mettere a punto, perché nei locali, oggi, ti chiedono sempre più di fare cover. È meno rischioso.

Il Folletto del Quartiere

follettotorinoLa primavera avanzava a spruzzi, a lame di sole taglienti, di quelle che penetrano negli appartamenti a fare brillare il pulviscolo nell’aria immobile dei salotti e delle camere da letto, quando la Vorwerk calò sul Quartiere. Inesorabile come la mannaia del macellaio all’angolo, dilagante come le acque del torrente una volta rotti gli argini, pervasiva come gli sciami estivi di zanzare tigre, prese la forma di Giuliana Nobili, un’abile venditrice di mezza età: spigliata, non invadente né remissiva, garbata ma senza eccessi, la loquela che fa tutto più semplice di quel che è. Dopo che la professoressa Tarasconi le ebbe aperto per prima la porta, fu tutto un infilarsi nelle case tirandosi appresso l’aspirapolvere e il duplice valigione, per uscirne un’ora dopo con in mano la firma sul contratto. Del resto, se la Tarasconi, cui la vulgata (che lei badava bene a non smentire) attribuiva ben tre lauree, nonostante la realtà la volesse professoressa di Educazione Tecnica alla scuola media, e quindi solamente diplomata all’Istituto tecnico femminile, se un cervello così fino, se un’intelligenza tanto illustre, aveva acquistato un aspirapolvere convinta dalla dimostrazione, doveva trattarsi con tutta probabilità di un prodotto straordinario. Certo, il fatto che un aspirapolvere costasse, nel Quartiere si ragionava ancora in lire, da due a cinque milioni a seconda delle dotazioni, suscitava qualche perplessità. Ma tant’è. La signora Greco, nata Tetyana Shevchenko, collaboratrice domestica in casa della docente, impose subito l’acquisto del costoso macchinario al marito postino, aggiornato solamente a cose fatte: l’episodio si risolse in serate di strepiti e musi lunghi e, dietro suggerimento della Nobili, in ventiquattro rate comode comode. Anche la signora Gallardo, abbacinata dall’efficienza dell’accessorio per pulire i materassi, non seppe resistere, nonostante fosse indebitata oramai con tutto il Quartiere: al pollivendolo faceva sempre segnare, così come al fornaio e al minimarket. Come ottenere il credito necessario per l’anticipo? Poiché al tabacchino che le prestava i soldi dei grattini, ché tanto poi se li rinfilava in tasca, non osava rivolgersi per un bene così voluttuario, si risolse a bussare alla porta di Antonello Speranza. L’anziano, gobbo e macilento, ferroviere pensionato, ora prestatore di denari a interesse, le aprì la porta del suo appartamentino lurido. Cinque carte da cinquanta, tre cifre su un taccuino dal cartoncino unto di ditate e un ci vediamo a fine mese con la prima rata. La Gallardo prese la porta ringraziando la Vergine di Guadalupe, con il cuore che batteva all’impazzata per quella ricchezza improvvisa. Prima che l’uscio di Speranza le si richiudesse alle spalle, vi si infilò la Nobili col famigerato doppio valigione. Ogni giorno un corriere scaricava sui marciapiedi squassati del Quartiere scatoloni contenenti l’agognato elettrodomestico. Dopo un paio di mesi ogni benedetto appartamento mandava giorno e notte il ronzio familiare. Pagare la rata pesava a tutti, in quelle strade popolari, ma mai che qualcuno si lagnasse, tutti anzi a dire di come fosse cambiata in meglio la loro vita, con un alleato così fedele per le faccende domestiche. L’ultima sfida, la Nobili la vinse che giugno era alle porte. Montò la macchina, districandosi tra vuoti di birra e portacenere stracolmi, nel salotto di Matteo Salvi, trentenne, disoccupato, tossicodipendente. «Cosa le pulisco? Il tappeto sotto il tavolino del divano può andar bene?» «Veda lei…» Sbadigliò Salvi succhiando un spinello. La Nobili manovrò per qualche secondo il battitappeto, questa volta, a differenza di altre, con scarsa convinzione. «Ecco vede? Guardi nel sacchetto. Questo è lo sporco che Folletto rimuove dal tappeto in pochi istanti.» Salvi ruttò, poi si allungò, svogliato, a guardar dentro il sacchetto per buona educazione. Si grattò la testa, un po’ indeciso. Quindi infilò un dito nello strato di polvere trattenuta dalla microfibra e sotto lo sguardo sbigottito della Nobili lo portò alla bocca, saggiandolo con la punta della lingua. Sguardo ebete, bocca aperta: «Quanto ha detto che costa questo giocattolino?» La Nobili si trattenne, ma l’urlo di trionfo le traboccò comunque dagli occhi: «Non gliel’ho detto. Lei quanto vuol spendere? Cinquanta al mese? Troppo? Trenta?»