Archivio tag | alluvione

Non c’è di che

parma_mappa_r350

Come cacciatori cheyenne sulla strada del bisonte, come guerrieri apache acquattati in attesa della battaglia, le ragazze e i ragazzi che tirano su il fango si pitturano il volto, tracciandovi spessi segni con la melma marrone. Cacciano fuori espressioni da veri duri e alla faccia di chi li vuole pii angioletti ardenti d’inconsapevole bontà ci ricordano che gli angeli non esistono. Esistono ragazze e ragazzi che sono sempre, naturalmente, tutti giovani e belli. Noi, che facciamo schifo, preferiamo attribuire caratteri divini a comportamenti normalissimi, in modo da poterci tranquillamente guardar bene dall’imitarli e, al contempo, sentirci assolti.

Il torrente non è entrato nel negozio del parrucchiere, ne ha solo lambito la vetrina, ma ha depositato sulla strada e sul marciapiede antistante un soffice strato di sedimento cremoso. Il titolare è molto preoccupato: con la via ridotta in quel modo, anche se il negozio è pulito ed efficiente, i clienti oggi non arrivano. Così ha mandato Malati, la donna indiana che lavora per lui, a creare un passaggio nella guazza. Lei si dà da fare armata di spazzolone di plastica e di una grossa pala smaltata di rosso, probabilmente una di quelle distribuite dai furgoncini del Comune. Il proprietario del negozio fuma con la schiena appoggiata allo stipite dell’ingresso e guarda preoccupato l’orologio: sono passate le quattro, il pomeriggio sta trascorrendo in fretta e già la mattina è andata persa. Probabilmente pensa che Malati sia troppo lenta a spalare, allora chiama un gruppo di questi ragazzi che, con i loro segni tribali sul volto, si accaniscono contro un cumulo di detriti che ostruisce un tombino. “Oh, siete mica dei volontari?” “Sì, ha bisogno?” “Che bravi ragazzi! Non è che mi dareste una mano a ripulire qui, davanti al negozio, così la gente può passare?”

Malati lavora dieci ore al giorno: shampoo, massaggi, tagli, tinte, pieghe, pulizie. Malati fa di tutto, sei giorni alla settimana, dalle nove alle diciannove. Malati guadagna 35€ al giorno e ha un contratto che dice che lavora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Potrebbe anche andarsene e il suo datore di lavoro se la vedrebbe nera, di altre brave come lei non ce ne sono mica in giro. Ma anche se lo facesse, cambierebbe poco: tutti gli altri parrucchieri che ha sentito pagano così. E così passa la vita restando al proprio posto, a rigare diritto per pagare, chissà con quali miracoli, l’affitto e l’istruzione dei figli. Colpa di un mercato del lavoro selvaggio, dell’ampia disponibilità di apprendisti da sfruttare nel settore. Colpa delle istituzioni, che non proteggono, non tutelano la dignità e la qualità della vita delle persone. Non di fronte alla furia del fango, non davanti alla rapacità umana. Però impongono riforme del lavoro che tutto sono tranne che l’unico Jobs act di cui c’è davvero bisogno: quello che ci liberi da ogni sfruttatore.

“Certo, arrivo subito!” cinguetta una ragazza emergendo a fatica da un banco di sabbie mobili. Si avvicina al parrucchiere che le sorride facendo luccicare il dente d’oro, mentre ravana il taschino in cerca del pacchetto di Merit. “Grazie, bella!” “Uh, prego, non c’è di che. Tenga, questa è la pala!” Lui si ritrova a reggere il badile per il manico, lo stupore disegnato nella bocca aperta e negli occhi fissi al vuoto. Lei gira i tacchi e se ne va. Malati si gira di spalle perché proprio non ce la fa a nascondere il sorriso.

I gatti di Vernazza (numero 2)

Se rinunci ad arrampicarti a monte della stazione ferroviaria, ti puoi illudere che le cose, a Vernazza, siano tornate alla normalità. Tre bimbe hanno allestito un mercatino di conchiglie su un tavolaccio giù in piazza e invitano i clienti con un megafono giocattolo. Buona parte degli esercizi commerciali hanno, in qualche modo, riaperto i battenti. I cantieri ancora aperti paiono essere a buon punto. Ombrelloni colorati di varie dimensioni, ammucchiati e sovrapposti, riparano i tavolini dei bar e qualche americano vacanziero assetato di tè freddo. Il cameriere marocchino distilla saggezza a buon mercato, il suo perché dell’alluvione: “La natura è arrabbiata con noi. Può darsi che quando saremo perfetti le cose cambieranno!” Ti viene voglia di spiegargli un paio di cose, Leopardi, ma lasci perdere, forse ha ragione.

Osservata dal mare, poi, Vernazza è ancora una cartolina, una vista messa lì per scaldare il cuore a lungo, nonostante qualche muro ancora chiazzato dal fango, l’acqua un po’ limacciosa che chissà cosa c’è finito dentro. Da uno scoglio scorgi una piccola medusa che a guardar meglio si rivela essere un preservativo usato: “Non mi avrai mai, in ogni caso, che tu sia celenterato o gondone!”

Il Castello Doria resta ancora chiuso, ma il cartello con sopra scritto che il pagamento è a parte, non incluso nella Cinque Terre card, è bene in mostra: si chiama formazione permanente del turista. L’ultima volta che ci sono salito ci ho accompagnato un gruppo di diciottenni smidollati, totalmente impermeabili al panorama mozzafiato che da lassù si gode. Me la rinfacciano ancora quella scalinata, insieme alle camminate e agli Ossi di seppia: “Ma è sicuro che esce quest’anno? Sennò che cosa la leggiamo a fare, ‘sta roba?” “Tranquilli, è l’anno di Montale!” Infatti è uscito Svevo.

Risalendo a monte, oltrepassati i binari del treno, l’illusione finisce. Le case sono quasi tutte chiuse, i cantieri in alto mare. L’ufficio postale è ancora un furgone Iveco con la tendina attaccata da un lato, a coprire un tavolino da campeggio sopra il quale puoi vedere pensionati curvi a riempire bollettini. Ma sarà l’estate, il sole che brucia perché non è filtrato dallo smog come in pianura, sembra che Vernazza ce la possa fare.

Il tramonto, un piattino con le acciughe salate, che ti auguri d’allevamento o pescate in un mare diverso da quello in cui nuota il profilattico, un bicchiere di vino bianco. Di punto in bianco, nella piazza di Vernazza, si sparge la voce della morte di Andreotti, messa in giro da chissà chi. Poi, per bocca di una barista bionda, arriva la smentita e le prevedibili battute si sprecano. Quando ti sembra che qualcosa manchi, un micio bianco e nocciola fa capolino dalla porta sul retro di un ristorante.

I gatti di Vernazza (numero uno) è qui.

I gatti di Vernazza

Ha gli occhi trasparenti e i capelli radi, una maglia a righe colorate sotto la giacca sbottonata. Sta seduto a gambe larghe per far posto alla pancia che penzola giù verso la panca. Guarda il mare, o la spiaggia ancora ingombra di macerie. Se ne sta zitto, a differenza degli altri due: un anziano dal corpo asciutto che fa andare una sigaretta dopo l’altra, passandosi di tanto in tanto una mano tra i capelli bianchi pettinati all’indietro e una donna rinchiusa in una giacca a vento che sorseggia Beck’s dal collo della bottiglia. E il gatto di Mario? Dicono. Andato anche quello, morto. Nell’alluvione? Nell’alluvione.

Qualche gatto si aggira ancora tra le macerie di Vernazza alluvionata. Molti altri sono stati travolti. Sono passati quattro mesi dalla catastrofe e il paese lentamente rinasce, anche se ad oggi pare ancora di essere in un villaggio fantasma. Funziona il circolo CSI della piazza, funziona la chiesa. Ma tutto il resto è sprangato. Gli abitanti, che vivono quasi tutti fuori, vengono a vedere come vanno le cose. Parlano dell’acqua, della montagna venuta giù, di centoundici frane, del bombolone del GPL che non è esploso, ché sennò addio. Parlano dei gatti.

È un dolore immenso un paese distrutto, quel paese distrutto. Mentre guadagno la stazione, mi viene in mente come le Cinque Terre sfasciate e i gatti affogati siano un po’ una metafora di quest’Italia allo sbando, fatta di colpe di cui nessuno si assume le responsabilità, di classi dirigenti ottuse e di cittadini che delegano e curano, avidi, l’orticello. Poi mi viene in mente che questa della metafora è proprio una scemenza. Che quando la natura si scatena e spacca tutto non c’è niente da dire.

Sala d’attesa della stazione di Vernazza. I cartelli dell’ente parco sono sempre appesi alle pareti, chiazzati dal fango. Si leggono ancora le tariffe: Cinque Terre card, 5€ dal lunedì al venerdì, 6€ il sabato, 7€ la domenica. Dove sono finiti, per cosa sono stati utilizzati?

Divido una panca di legno con tre persone. Parlano in dialetto di un vicino di casa che sta trafficando per riuscire a ristrutturare il bagno con i soldi per la ricostruzione. Dicono, ovviamente, che è uno schifo.