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Salvezza

siriaOgni santo giorno la stessa storia. Entro in classe e lo trovo così: piazza due sedie una opposta all’altra e ci stravacca sopra il suo metro e ottanta. Incastrato con attenzione un piede sotto uno schienale, si puntella con un gomito al legno scheggiato della seduta, per raggiungere un punto di equilibrio che difficilmente abbandona; del resto, tutto ciò che gli serve ce l’ha a portata, sparpagliato sul banco: quattro o cinque tascabili spiegazzati, perlopiù Stevenson, Conrad, London, una matita, un quadernetto, una sigaretta elettronica di quelle con il serbatoio a forma di parallelepipedo che, poggiata lì, sembra una grossa pipa a riposo. “Non la fumo professo’, state tranquillo, la tengo qui per compagnia”, dice senza staccare gli occhi dalla lettura. Vincenzo è piombato da poche settimane in questa classe di quasi tutte ragazze, portandosi dietro i suoi jeans strappati, un paio di All star scolorite, una t-shirt di che cotone dice che Ciro Esposito è vivo. Da allora vive sotto una campana di cristallo, una cupola sigillata, impermeabile, dalla quale escono pochi, quasi impercettibili, suoni. Nella quale pare non filtrare nulla. Lui sta lì dentro, legge. Scrive. Ogni tanto indossa delle pesanti cuffie wireless arancioni, poi le toglie. Scrive. Legge. Intorno alla cupola di Vincenzo è tutto un brulicare di vita: le ragazze ridono, strillano, si accapigliano, piangono, studiano, alzano la mano, vanno in bagno, sistemano il trucco al cambio dell’ora. Fanno mille rumori che a lui non arrivano. Gli insegnanti entrano, sbadigliano, interrogano, accendono la lavagna, spiegano, sbadigliano, escono. Dicono mille cose, Vincenzo lì sotto non sente niente. Le campanelle suonano, i ragazzi escono spintonandosi, i bidelli spazzano. Fuori il sole buca le nuvole o si nasconde, il vento soffia tra i rami gemmati dei tigli del parco, si porta l’odore di concime della campagna misto ai gas di scarico delle auto imbottigliate sulla circonvallazione, entra dalle finestre aperte dell’aula ormai vuota. Niente di tutto questo arriva a Vincenzo che è ancora lì, in equilibrio su due sedie disposte a formare un specie di amaca per fachiri. Il richiamo della foresta. Raccolgo i miei libri. Vincenzo legge. Impacchetto un mucchio di verifiche. Vincenzo scrive. Ripongo il prezioso pennarello da whiteboard nell’astuccio. Vincenzo legge. Intorno alla cupola di Vincenzo è tutto un brulicare di morte. Un gas velenoso galleggia e si infila nei corpi per ucciderli dall’interno, lasciandoli contorti sul selciato. Autobombe scagliano lontano rottami e schegge miste a pezzi di corpi di madri accorse per il mercato. Folle urlanti fuggono da tir impazziti calpestandosi sull’asfalto. Vincenzo legge. Infilo lo zaino, sistemo la sedia sotto la cattedra,: “Ciao, Vincenzo. A domani. Senti un po’, com’è che non te ne esci mai da lì dentro? Perché stai sempre a leggere e scrivere per i fatti tuoi? Perché non provi a stare tra noi?” Una pioggia di missili tomahawk si abbatte contro il cristallo infrangibile della cupola, frantumandosi in un tripudio terribile di fuoco e metallo urlante. Gli occhi azzurri di Vincenzo sorridono: “Professo’, fuori della penna non ci sta salvezza. Voi non lo pensate?”

Sam del castello

a9of8kI grandi platani del parco sono stati spogliati dall’autunno, le foglie gialle a terra ghiacciate si frantumano sotto le sneakers di Samira. Fanno uno scricchiolio che a lei, uscita di soppiatto da casa, sembra allargarsi nella notte in modo del tutto smisurato. Vuoi vedere che tutto questo baccano arriva fino alla stanza di mamma e papà e li sveglia? Proprio ora che è quasi fatta, che dopo essere scivolata lungo il corridoio evitando di inciampare in mobili, lampade, ceramiche varie nordafricane made in China e scarpe dimenticate al solo lume del Samsung, dopo essere addirittura sfilata indenne davanti alla porta spalancata della camera dei genitori ronfanti, ma non possono chiudersi dentro come dei genitori normali?, dopo aver aperto l’uscio ruotando lentissima la maniglia, ma così lenta che ha fatto girare la leva piano come la lancetta delle ore nell’orologio della sala, con la stessa circospezione che usa il protagonista di un racconto che ha letto a scuola, dove un vecchio viene ucciso ma il suo cuore rivelatore accusa l’assassino, dopo un siffatto miracolo di autocontrollo questo dannato crick crock delle foglie mi farà scoprire. Sarà scoperta e, ovvio, punita. E la punizione sarà severa e implacabile, perché la mamma è disperata, il papà è disperato, e le punizioni dei genitori disperati sono spietate, crudeli, come il male che li rode dentro. È quasi arrivata, la luce metallica della luna filtrata da nuvole di rami nudi inquadra la meta, uno scheletro di legno e acciaio. Fa così freddo che il metallo deve bruciare a toccarlo a mani nude, pensa Sam. Immagina la sensazione così bene che la sente quasi salirle dai polpastrelli lungo i polsi e su per il braccio, come una lametta da barba strisciata a fil di pelle, con la pressione che basta a graffiare. Cammina sulle foglie, e ancora crick crock, ci sei quasi… rivede la mamma in piedi davanti alla TV, la mamma stringe la cornice con la fotografia di Hamza, dove lui è vestito con un completo blu e sorride con gli occhi, i soliti capelli leccati con il gel e il sopracciglio destro spaccato da una cicatrice. È una foto di due anni fa, di prima che suo fratello sparisse nel nulla. Il papà fuma seduto al tavolo di cucina, su quello che resta della cena interrotta, con la felpa dell’adidas macchiata, la barba lunga a chiazze, i capelli un impasto confuso di fili grigi sottili e neri, più spessi. La mamma lascia cadere la fotografia, il vetro si spacca. Mamma ha rotto la foto, bisognerà sostituire il vetro, aggiustare la cornice. Il papà le risponde di no. Sam, non è vero che le cose si possono aggiustare, quando si rompono si rompono e basta.

È una specie di castello, una di quelle costruzioni dove i bambini giocano arrampicandosi su funi o aggrappandosi a grossi anelli di metallo, incespicando su passerelle di corda, rincorrendosi su piattaforme basculanti, per poi tornare a terra scivolando su pertiche o piani inclinati. Almeno, a lei sembra un castello, ci sono persino dei merletti, ma ricorda che altri bambini ci vedevano una casa nel bosco. Casetta o castello che sia, la notte di ghiaccio la veste di un velo impalpabile, spettrale. È venuta sin lì per quello che c’è proprio al centro della costruzione, sotto un pianerottolo protetto a sua volta da una tettoia di plastica arancione: una specie di stanzetta senza porta, un parallelepipedo di legno. Vi si accede da un’apertura circolare, una sorta di oblò privo della lastra di vetro. Entrarci è complicato, bisogna prima infilare una gamba, poi abbassarsi e far passare testa e tronco, quindi richiamare l’altra gamba, ma lo spazio è stretto, perciò non è una passeggiata. Alcuni bambini non ci riuscivano, ma per lei era un gioco da ragazzi e lo è ancora, anche adesso che ha quasi tredici anni: è il vantaggio di essere minuta. Inoltre, una volta che si è dentro, non è che ci sia un granché da vedere o da fare: lo spazio è soffocante e c’è anche della spazzatura: come in tutti i posti difficili da guadagnare, chissà perché, anche qui la gente ci butta i rifiuti. Lattine mezze schiacciate e tubi di Pringles che resteranno qui a lungo, probabilmente per sempre. Sam, in quella stanzetta sotto il castello del parco, c’è stata la prima volta che aveva cinque o sei anni, con lei suo fratello che ne aveva quindi o sedici; ma poi ha cominciato a tornarci da sola. Anche se sempre di giorno e sempre con la bella stagione, quando la costruzione è popolata di nanerottoli festanti e non mette mica paura come qui, adesso, nella notte, d’inverno.

Lì dentro erano riusciti a starci in due, quella prima volta: Hamza tutto rannicchiato e dopo aver massaggiato per bene testa, gomiti e ginocchia contro il legno di soffitto e pareti, lei comoda comoda in piedi. Un caldo infernale, l’odore pungente e rassicurante del sudore di suo fratello, lo stesso di quello di papà. Cosa ci facciamo qui dentro? Le sue mani sul suo viso innamorato di bimba, chiudi gli occhi, concentrati, questo è un posto speciale, solo io lo conosco. Beh, adesso anche tu, Samira. È l’ultima estate prima di iniziare la scuola, il mondo è pieno così di posti speciali, anche a soli quattro passi da casa, nel parco, dentro una costruzione che è un gioco per bambini. Luoghi misteriosi e magici, rivelati da fratelli grandi e invincibili, sui quali è bene mantenere segreto, perché nessun altro li scopra. E adesso, dopo che hai chiuso gli occhi, concentrati. Pensa a qualcosa di brutto che ti è successo, pensaci forte e vedrai, sparirà. Ci aveva provato, aveva pensato ad alcune cose brutte, per esempio a quando era morto il gatto e lei aveva pianto così a lungo che pensava che non avrebbe mai smesso. Ma sei sicuro? Io ho pensato forte, come dici tu, ma non è successo niente. Hamza aveva soffiato e messo su un’aria esasperata. I bimbi sono davvero troppo lenti a capire per la scarsa riserva di pazienza di un adolescente. Ma non così, mica siamo in una macchina per dimenticare, per cancellare i ricordi. Non funziona così, come una gomma sulla traccia di grafite. È più… tipo una macchina del tempo, che fa andare le cose all’indietro, così che poi si possa ricominciare. Hai presente? Come un film che va all’indietro fino al punto che vuoi tu, e poi incomincia di nuovo da lì, ma  succedono cose diverse. La storia brutta resta, non viene cancellata, solo va a finire in un altro posto, in quello dove ci sei tu le cose vanno meglio. Mi sono spiegato? Non è che ci avesse capito granché, film all’indietro, un posto diverso, ma aveva intuito, aveva sentito che Hamza condivideva con lei un segreto importante, così gli aveva detto che era vero, che funzionava, anche se in realtà non era successo proprio un bel niente. Ma che funzionasse, e bene, lo aveva poi capito negli anni a seguire. Erano tante le storie, gli stupidi incidenti, i piccoli sbagli che aveva abbandonato al loro destino, con quel tornare un po’ indietro, così facile come voltare le pagine di un libro nel senso opposto: entrare là dentro e rannicchiarsi con i gomiti appoggiati alle cosce e il viso tra le mani a pensare forte per spingere via le cose storte.

Intorno al castello non ci sono foglie, solo terra gelata. Il foro d’ingresso dà sul nero, il nero puzza di freddo. Samira lascia scorrere le dita lungo la circonferenza dell’oblò, un po’ stupita: è stato un gioco da ragazzi, ora è lì. Certo, la fretta le ha fatto scordare i guanti e la sciarpa e rabbrividisce magra dentro il piumino sintetico, ma ci è riuscita: è lì e, forse, è ancora in tempo. Forse, può fare ancora girare il film al contrario, riparare quello che si è rotto. È dentro, appoggia la schiena alla parete, controlla il respiro, sente il cuore che martella. Punta i gomiti, si copre gli occhi con le dita intirizzite. La sensazione è la solita, sa che per un po’ non succederà niente, avverte solo piccoli dettagli senza importanza: la mattonella del telefono che tende la tasca posteriore dei jeans, la punta del naso bagnata come il tartufo di un cane, il rumore lontanissimo di un treno in corsa. Quando arriva è all’improvviso, succede sempre in questa maniera, che poi è come quando leggi un racconto e inizialmente ti devi fare forza per concentrarti sulle righe, ma poi un mondo intero prende forma in un baleno e tu ci navighi dentro con naturalezza, come se ci avessi sempre vissuto.

La mamma è in piedi davanti alla TV, il papà al tavolo di cucina. Il frammenti di vetro si raggrumano, il quadro si ricompone e torna tra le mani della mamma che piange, che prega, che non crede più a niente, mentre la bocca di papà si rimangia un’intera nuvola di fumo. La fotografia segnaletica di Hamza, con quel suo sopracciglio spaccato e gli occhi aperti sul vuoto che non sorridono più, diffusa dalla polizia, scompare dallo schermo della TV. La conduttrice del TG parla all’indietro, i titoli scorrono al contrario in sovraimpressione sulle immagini del ristorante recintato con i nastri della scientifica, alternate a scene in cui figure incappucciate sventolano bandiere nere del califfato: HA UN VOLTO IL TERRORISTA DEL RISTORANTE. Tutto viaggia al rovescio, la telefonata dello zio a papà: accendete la TV, il telefono che vibra sul tavolo con la fotografia dello zio che lampeggia sullo schermo, lo schermo che torna nero. Il video che gira su internet dalle ore immediatamente successive al massacro, lei l’ha guardato, come tutti, mille volte, si avvolge su se stesso. Si tratta delle immagini delle telecamere di sicurezza a circuito chiuso del ristorante, montate in modo da mostrare tutta la dinamica dell’attentato. La figura incappucciata rientra dalla porta, cammina all’indietro, guadagna l’unico tavolo occupato, stende il braccio, si vedono tre cadaveri: due uomini a terra e un ragazzo in camicia bianca piegato in avanti sul tavolo, sulla tovaglia bianca una larga pozza di sangue. La canna della pistola esita un po’, oscilla nell’aria immobile e raccoglie i proiettili che si sfilano dai corpi mentre i due a terra si rialzano e tornano ai loro menu. Sullo sfondo una signora bionda si rialza da dietro il bancone con uno strofinaccio e un bicchiere tra le mani, l’orrore dipinto sul volto sparisce. Pochi secondi e si alza anche il cameriere, la faccia esplosa torna un sorriso gentile, con gli occhi azzurri che nel video originale non si distinguono, ma che ora Sam distingue perfettamente. La pistola di nuovo dentro la giacca, l’uomo in passamontagna con pochi veloci passi all’indietro torna fuori dal ristorante. Sam spinge ancora un po’, con gli occhi chiusi, l’orrore all’indietro. Spinge via il suo dolore di sorella, e per questo si sente un po’ egoista. Sarà giusto, per la sorella di un assassino, soffrire così, come soffrirebbe la sorella di una vittima? Non lo sa che il dolore è di tutti, è uno solo ed è sempre lo stesso, un groviglio così informe che non sai da che parte prenderlo, e che quindi puoi solo spingerlo via. Spingere via tutto il dolore e tutto l’orrore che c’è. Mantiene la concentrazione, Sam. Sta lì rannicchiata fino a che non esiste più quell’uomo incappucciato che urla Dio è grande.  Quell’uomo che è Hamza, anche se lei adesso non lo sa più.

Fuori di lì si stira i muscoli, che razza di freddo. Ritrova le tracce fresche sulle foglie ghiacciate, gioca a ricalpestare i suoi passi, leggera esce dal parco, va verso casa. Ci vuole un attimo, perché la strada del ritorno è sempre più veloce di quella dell’andata. Un ragazzo in bicicletta la affianca, le dice qualcosa, lei guarda sempre diritto davanti a sé, come le ha insegnato la mamma. Lui le chiede che cosa ci faccia in giro a quell’ora, se non abbia paura o semplicemente freddo. Ti accompagno a casa, che è pericoloso, qui la notte. Samira guarda avanti e sente le parole, ma anche senza voltarsi è come se le vedesse sbuffare in nuvolette bianche attraverso la sciarpa. Tanto, sai, io sono abituato al pericolo, faccio il lavoro più pericoloso di tutti, di questi tempi. Faccio il cameriere in un ristorante, quello che c’è giù in fondo a questa strada. Stacco ora. Senza pensarci Samira si volta, del resto oramai è sotto casa. Il cameriere ha gli occhi azzurri e un sorriso gentile. Sentiamo un po’, da quando in qua sarebbe un lavoro pericoloso fare il cameriere? Comunque, io sono arrivata a casa, abito proprio qui: scampato pericolo, no?

Il califfato sulle spiagge, parte seconda

a-tutto-zumba-brolo-4443-300x223I bagni più in della Riviera ligure di Levante pompano la stessa musica truzza, ma li sgami subito che non sono dei paradisi per tamarri in stile Rimini, perché i baristi sono particolarmente parsimoniosi sulla quantità di superalcolico che versano nei cocktail e i bagnini hanno il sorriso e l’energia dell’impiegato del catasto a un mese dalla pensione. Così tanto vale ripiegare sulle spiagge comunali, con gli asciugamani stesi direttamente sulla sabbia e con gli ombrelloni del Decathlon, piantati alla bell’e meglio, che finiscono facile preda del maestrale a seminare il panico tra le famiglie assise attorno alle ghiacciaie a condividere Moretti, coca-cola e ciotole di riso venere con i gamberetti guastati dal sole. Il chiosco, anche qui, ha la radio a mille. Anche se non sono ancora le dieci. Anche se è il 15 luglio e ti sei svegliato con l’immagine di decine di corpi schiantati da un camion frigo sulla Promenade nizzarda. Il giornale radio lo ha appena ricordato, benché si sia soffermato più che altro sul fatto che la tappa del Tour de France di oggi, la crono, si svolgerà regolarmente, ma solo dopo un momento di raccoglimento. Perché la vita deve andare avanti, perché non abbiamo paura, perché le bestie non ci fermeranno. Sembra un comandamento, questa cosa, dell’andare avanti. Ora, infatti, alla radio del chiosco un dj mescola brani vintage ai ributtanti successi dell’estate 2016. Tra un brano e l’altro infila una serie di banalità, urlando come se fosse seduto sulla griglia di un barbecue. Quando introduce il pezzo di Fedez e J-AX si sente in dovere di dire qualcosa, avverte probabilmente un certo stridore tra la sua foga forzata da animatore Valtur e la brutale realtà della cronaca di questi giorni: “Beh, ragazzi… sappiamo tutti cos’è successo, no? E allora non possiamo stare indifferentiiiiii! Bisogna che in qualche modo andiamo avantiiiiii! E allora godiamocelaaaaaa questa estateeeeeeeee!” Il vicino d’ombrellone è un tizio uguale a Mario Monti, ma con una lunga barba: potrebbe benissimo essere un islamico moderato. Alla sparata del dj solleva un sopracciglio, poi prosegue nella lettura di un Maigret spiegazzato. Alle undici il programma del chiosco propone il corso di Zumba. Salta fuori un tipo tutto nervoso e dinoccolato, che assomiglia pericolosamente a quello che alla sera raccoglie le cicche dalla sabbia con il retino, ma con in più un cappello a sonagli. Il barista, al microfono, lo presenta come il migliore istruttore di Zumba della Riviera. “Minchia, che credenziali!”, sbotta Monti. Il volume della musica aumenta e quattro zombie iniziano a scimmiottare il maestro di danza: sudano forte e si procurano distorsioni alle caviglie sulla sabbia infuocata. Poi la musica cessa di colpo, l’istruttore bercia: “Ragazzi, su le mani tutti! Facciamo vedere a questi bastardi dell’ISIS che non ci fermeranno mai! Che non abbiamo paura!” Segue un uhh! collettivo della spiaggia, poi di nuovo via col tunz tunz a palla.

Il Mario Monti barbuto si leva gli occhiali e si stropiccia le rughe. “Sarà che io un po’ di paura davvero ce l’ho.” Sbotta: “Sarà che io tutta questa voglia di sfrenarmi davvero non la sento più, che sono vecchio. Tutta questa necessità di fare come se nulla fosse, come se non si stessero ancora contando i cadaveri, i dispersi, che poi sono decine di vite strozzate e centinaia di persone sprofondate nel buio di un dolore assurdo… Non bisogna farsi intimidire, certo. Bisogna andare avanti. Anch’io sono qui, mi leggo un giallo, per carità. Ma tutto questo bisogno di divertirsi a ogni costo, senza concedersi nemmeno una mezzoretta per riflettere, insomma, di fare come se non ci fosse un domani, non sarà mica un’esigenza del capitalismo consumista più ignorante piuttosto che la risposta dignitosa che dovremmo attenderci della nostra cosiddetta civiltà occidentale?”

“Beh, professore. Se lo dice anche lei…”

Il califfato sulle spiagge, parte prima.

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L’erosione costiera nel Levante ligure è direttamente proporzionale alla diffusione sulle spiagge di giochi, di squadra o individuali, che prevedono l’uso di racchette, mazze, palle, palline, ovali, giavellotti, boomerang, bolas e dischi volanti di diverse taglie. Il bagnante che non sia abituale in questi luoghi, resterebbe forse sorpreso da come, su queste strisce di sabbia o ciottoli ogni anno più risicate, si riesca contestualmente a svolgere un così elevato numero di attività ginnico-ricreative. Stormi di oggetti in volo, neri contro il sole come cattivi pensieri, inseguiti da branchi di sportivi scalzi e sudati. Certo, qualche incidente, data la densità dei bagnanti, è inevitabile, ma il clima lieve di festa e serenità resta in ogni caso ineguagliabile e appagante.

Una vecchina impegnata nella passeggiata sul bagnasciuga, passi incerti e ginocchia gonfie è colpita alla nuca da un ovale da rugby spiovente da una ventina di metri d’altezza: cade in acqua, faccia in giù, forse svenuta. Una medusa si sincera delle sue condizioni allungandole un tentacolo lungo il collo. Un ragazzone americano, cento chili ammucchiati a manubri e bistecche, rincorre un frisbee scalcagnando la sabbia: stacco, presa plastica in volo: “Wow, it’s mine!” e atterraggio con tallone destro sul cranio di un tizio, mezza età, che dorme steso su un fianco. L’osso parietale del cranio cede di schianto, lo schiocco di una noce che si rompe, la poltiglia di sangue e cervello che si allarga sul telo mare a fantasie afro; il tipo stira le zampe di scatto, irrigidisce la schiena e continua a dormire. Una bimba stampa una torre merlettata col secchiello, perfetta, un lavoro coi fiocchi; si rizza in piedi trionfante, chiama: “Papà, guarda!” Un istante e un dardo scoccato a bruciapelo da un’amazzone brianzola la trafigge in un occhio. La bimba resta in piedi, con il secchiello in mano, assorbe tutta l’aria che può in due tre secondi di silenzio surreale, poi lascia partire l’urlo più acuto che sia mai risuonato su questa terra. Il papà è assorbito dalla messa a punto del mirino di una cerbottana di precisione in fibra di carbonio, così sussurra alla moglie che sta tirando al piccione con la fionda: “Jessica, vedi un po’ cosa vuole la bambina!” Stesa alla mia destra c’è una signora, una di quelle persone completamente votate alla tintarella, che se ne stanno perfettamente immobili per ore, così da non sprecare un centimetro di radiazione solare. A un palmo dal suo orecchio destro c’è il punto che un gruppo di teenager ha eletto a luogo di battuta di una serie di calci di rigore. Il primo piazza il pallone, quindi rivolto a quello che pare il portiere mima il gesto del cucchiaio, infine fa partire una bomba: una trentina di metri più in sopra le nostre teste intuisce e blocca un gabbiano basito. La fanatica della tintarella salta su, afferra il calciatore per un polso: “Adesso basta, ancora uno e faccio venire i vigili, o la Guardia Costiera!”. Il tipo la guarda e le fa: “Eh, sì… e poi? Viene anche l’ISIS?” Fa un rutto e si volta, mentre il secondo rigorista sistema con cura la sfera sul dischetto.

C’è qualcosa che non torna nel ragazzino che per rendere in modo iperbolico la minaccia rappresentata dall’intervento di un’autorità pubblica tira in ballo l’IS? Probabilmente no. Probabilmente non è che il prodotto di una cultura che ci spinge sempre di più a guardare il mondo unicamente dal nostro ridottissimo angusto punto di vista. Che ci ripete che al di là dei nostri confini, fuori dal nostro paesino, oltre le mura di casa nostra, fuori dal gruppo di amici, dalla nostra famiglia, c’è il nemico: che sia il vicino Anacleto, lo Stato, il migrante o l’organizzazione terroristica. Io ho il sacrosanto diritto di farmi i fatti miei, tutto quello che mi passa in mente, sempre e ovunque, non importa che il mio comportamento sia consono o inadeguato, che si tratti di azioni giuste o sbagliate; chiunque, in qualsiasi modo, per qualsiasi ragione, mi intralci è un nemico. O forse è soltanto che il ragazzo ha una gran confusione in testa. In ogni caso è in buona compagnia.

Islamofobia

thC3NY3MPENei giorni che seguono gli attentati di matrice islamista il mio barbiere se la passa male. Il negozio rimane vuoto per tutta la giornata e a lui non rimane che starsene in attesa, con la schiena appoggiata allo stipite in ottone della porta a vetri. Osserva pensieroso i mulinelli di polvere arrotolarsi sull’asfalto, mentre distratto fa ballare il rasoio a mano libera tra le dita nervose. Prima Parigi, poi Bruxelles, per Ibrahim, è la stessa storia: dopo queste stragi orribili gli abitanti del quartiere si mostrano improvvisamente restii a farsi accarezzare la gola dalle lame leggere del barbiere di fiducia. Ibrahim infatti è tunisino ma è un bravo ragazzo, e tuttavia non si sa mai… con le robe che si sentono, di gente che sembra normale e poi… Meglio arrangiarsi da soli per un po’. Che poi, arrangiarsi da soli significa che qui nel quartiere andiamo tutti in giro con barbe ispide e capelli arruffati e ciuffi di pelo che sbucano indomabili dal naso o dalle orecchie. Una sorta di catastrofe, sotto il profilo estetico. In verità, una soluzione ci sarebbe: l’altro negozio. L’altro negozio, il cui titolare è italiano e non può essere sospettato di simpatie islamiste, presenta tuttavia una serie di controindicazioni. Primo: l’altro negozio è unisex, chissà cosa vuol dire. Secondo: quelli che vengono fuori di lì hanno tutti la barba morbida e profumata e i capelli ingellati che fanno un’onda. Terzo: le uniche riviste che si intravedono sparpagliate sui tavolini sono cataloghi di balsami, oli e cremine per la cura della pelle, della barba, dei capelli. Niente Gazzetta dello Sport, niente Quattroruote. Di che si parlerà là dentro? Di cosmetici? La desertificazione culturale, è evidente, avanza implacabile. Quindi, dell’altro negozio, manco a parlarne. In questa situazione difficile, i più giovani, non potendo permettersi di sprecare occasioni galanti a causa di un look impresentabile, hanno tentato con il fai da te. Su amazon macchinette e lame vengono via per pochi euro, quasi quasi, mi fa uno di questi ragazzi al parco mentre il suo pitbull trattenuto appena dal laccio addenta furibondo l’aria a due dita dal mio ginocchio, da Ibrahim non metto più piede e risparmio duecentocinquanta carte all’anno. Il giorno successivo si presenta con un colbacco e una ferita profonda al collo. Gli dico che è carino, il cappello stile sovietico. Viene via a venti euro su amazon, mi fa lui, adesso scusa non parlo più sennò mi si riapre il taglio.

Insomma, si capisce anche senza farla troppo lunga. Se da qualche giorno non ci facciamo più sistemare la peluria è perché l’islamofobia è arrivata anche qui, nel quartiere, un posto apparentemente così lontano da città come Bruxelles, con i loro palazzi istituzionali di vetro e acciaio, le stazioni della metro, gli aeroporti, la gente che fluisce con trolley e valigette su pavimenti tirati a lucido; eppure così vicino, a quelle capitali, con questo coesistere di differenze ancora così incomprensibili. L’islamofobia è arrivata fino a qui, e i nostri comportamenti irrazionali danneggiano gente come Ibrahim, che ha due figli che vanno alla scuola materna. E certo, è colpa dell’IS ed è colpa di tutti coloro che ordiscono stragi di innocenti. E poi è colpa di Salvini, e di tutti gli altri razzisti: radicali, moderati e riformisti. Ma è colpa anche nostra, che ci guardiamo bene dal lasciarci alle spalle le nostre insicurezze, le nostre paure, dall’imboccare l’unica strada, impervia, per pensare un futuro accettabile.

Oltre alla questione estetica, al sentirsi duri, alla noia

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La prima volta che ho visto la bandiera nera dello Stato Islamico è stato sullo schermo del Lumia di un mio alunno del professionale, e non sapevo nemmeno bene di cosa si trattasse.

Il proprietario del telefono è un tipo piuttosto infantile, dedito a furtarelli e al commercio di cianfrusaglie giovanilistiche e più interessato al consumo smodato di bevande gassate e dolciumi che alla pratica jihadista. Siamo nel bel mezzo di uno dei tanti tira e molla a colpi di: “Consegna il telefono, lo sai che non si può usare in classe…” “Ma dopo me lo ridà?” “Intanto portalo qui e spegnilo…” Insomma, butto un occhio allo schermo mentre lui ancora tiene in mano il telefono: al posto della solita immagine osé, ecco quei caratteri bianchi in campo nero: “Che roba è?” Nessuna risposta, ma un guizzo orgoglioso nello sguardo, come a dirmi: “Visto? Ho anche queste altre…” Con il pollice fa scivolare altre immagini: un tizio incappucciato con Kalashnikov, scritte arabe in oro su sfondo verdone e qualcos’altro, che ora non ricordo più. “Su, spegnilo.” Molla il cellulare e torna a posto, un banco semidistrutto (da lui) su cui troneggia il solito berretto da baseball dalla larga visiera piatta, con l’adesivo appiccicato in mezzo: “Beh, prof, almeno mi ci manda alla macchinetta a prendere una Fanta?” “No, la Fanta fa male. E poi, a pensarci bene, fa pure schifo.” Lo guardo sbuffare, tirarsi il cappuccio della felpa lercia sulla testa, incrociare le braccia sulla fòrmica graffiata del banco e appoggiare la fronte ai polsi. Adesso chiuderà le comunicazioni per mezz’oretta, ostentando una dormita per compensare l’offesa subita. Poi il richiamo di una bibita fresca tornerà impellente e mi chiederà di nuovo di uscire. Cosa diavolo è che ti affascina di quella roba, di quei fucili, di quelle barbe, di quell’obbedienza? Cosa c’è di così bello, in quelle foto di fanatici, da stare a guardarsele sul telefonino, sognando chissà che? Da condividerle con gli amici. Sarà una questione estetica? Il sentirsi duri? Sarà la noia?

La prima volta che ho visto quel guizzo orgoglioso nello sguardo di un ragazzo è stato anni fa, negli occhi di un mio alunno dell’agrario, e non lo sapevo ancora distinguere.

Gli smartphone ancora non esistono e il mondo, secondo molti, è un posto migliore rispetto ad oggi. Siamo in un istituto agrario, le seconde generazioni ancora non hanno bussato alla scuola italiana e il ragazzo tunisino dell’altra classe è un oggetto curioso non bene identificato, tra tanti bravi ragazzi della campagna emiliana. Proprio uno di questi, maglietta stinta di Kill ‘Em All e quel guizzo nello sguardo, un bel giorno di maggio, la maturità ormai alle porte, mi mostra il diario. Pagine e pagine di svastiche, di immagini di Hitler e di ogni ciarpame nazistoide immaginabile. Resto di stucco, lo squadro: lui è lì che aspetta speranzoso una mia reazione positiva. Possibile che sia così fuori da pensare che io possa essere un nazi? Glielo dico. Proprio così: “Ma sei fuori di testa?” Lui scuote un casco di ricci neri, un po’ è deluso. Quindi, non ho mai capito se per alleggerire la sua posizione o per farmi sentire in minoranza, mi mostra alcuni diari dei compagni, prendendone a caso dai banchi a portata di mano: in tutti c’è la stessa robaccia. Cosa diavolo ci trovate in quella storia, in quell’odio, in quelle teste rasate, in quell’ordine agghiacciante? Sarà una questione estetica? Il sentirsi duri? Sarà la noia?

Nella scuola dove lavoro attualmente, merito probabilmente dell’utenza prevalentemente femminile, jihad e nazionalsocialismo non vanno per la maggiore. Nell’atrio, vicino al totem per strisciare il badge, campeggia lo schermo che normalmente riporta gli avvisi per gli alunni. In questi giorni è tutto nero, con la scritta bianca: Je suis Charlie. Ragazze con le cuffiette infilate nelle orecchie e il viso nascosto dietro i capelli gli scivolano accanto, via veloci senza leggere. All’ingresso è sempre tardi per sbirciare gli avvisi e all’uscita chissenefrega più.

Mi fermo e penso, sono solo. La scuola è Charlie, già. Il Corriere della Sera è Charlie, Renzi è Charlie e Rudi Garcia è Charlie. E poi dopo sono Charlie tutti quelli della televisione e tutti quei milioni che dicono di essere Charlie. Forse, addirittura, sono Charlie il parroco o l’imam e pure mamma e papà. Io sono Charlie, certo.

Sarà anche per questo, sarà anche perché qui tutti sono pronti a vantarsi di essere Charlie, ma il mondo fa schifo forte lo stesso. Oltre alla questione estetica, al sentirsi duri, alla noia.

Nati il 28 maggio

hqdefaultCammini con le spalle belle diritte, nonostante il pancione che avrà più di otto mesi, perché hai fatto il tuo dovere. Respiri l’aria che sa di pioggia, hai una fame da morsicare il primo che passa. Il corteo si è appena concluso, il comizio è in corso nella Piazza della Loggia, la gente ascolta, attenta. Ma i comizi ti hanno sempre annoiato, tutta quella retorica, quella solennità. E allora ti incammini per andare verso casa, una Leonessa dallo sguardo fiero, piuttosto affaticata, ma felice. Il tuo compagno ti vuole riparare dalla pioggia sottile, ma l’ombrello è troppo piccolo e così, da intellettualoide impedito quale è, fa quello che può, rischiando persino di ficcarti una stecca nell’occhio. Ad un tratto il botto, le urla, il sangue, la gente in fuga: c’è chi cade, chi spinge, chi piange. Un ragazzo ti urta da dietro e cadi sulle ginocchia, non si è nemmeno accorto di averti colpita, lo vedi saltare via dall’orrore a grandi balzi. Resti lì, un istante, cerchi di capire, di renderti conto, di tirare un po’ il fiato, prima di tentare di rimetterti in piedi. Ti senti afferrare da sotto le ascelle, ti senti mettere in piedi, di peso. Cominci a sistemare un passo dietro l’altro, senti che in due ti sorreggono, mentre altre tre o quattro persone ti riparano da quella massa in rotta, disperata, l’intellettualoide è ancora lì che ti regge l’ombrello, che pirla! Ti ritrovi in via San Faustino, sana e salva, ti pieghi in avanti, ti afferri le cosce, ti soffermi a guardare le chiazze di bagnato sporco sui pantaloni di tela. Tuo figlio è salvo, vedrà la luce tra qualche giorno.

Tuo figlio siamo noi. Noi, tutti, figli dei corpi offesi dalla loro bomba, noi che siamo sangue di quel sangue versato sul selciato e subito lavato via dai carabinieri, uomini di Stato così zelanti. Siamo nati il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, nella Resistenza, e abbiamo dovuto imparare alla svelta a vivere contro la loro violenza, a spenderci contro la loro fredda volontà sterminatrice. Lo abbiamo dovuto fare da soli, spesso, praticamente sempre, perché le Istituzioni hanno preferito guardare da un’altra parte, tutte. Ma ce l’abbiamo fatta, siamo qui, presenti, non ci hanno fermato le loro esplosioni, le loro minacce, le loro aggressioni. A dispetto dei loro piani di rinascita, dei loro sotterfugi, dei loro depistaggi, dei loro intrighi oscuri e maledetti, siamo cresciuti nella consapevolezza, nella testimonianza. Inoltre, purtroppo per loro, abbiamo sviluppato una memoria di ferro, che non si incrina nemmeno con l’età, che non cede il passo alla voglia di lasciare andare, perché oramai son 39 anni, perché adesso vai a sapere e chi ci capisce più.

Possono riparare in qualsiasi Giappone, o riposare in qualsiasi cimitero, questi aguzzini e i loro mandanti, ma rimangono degli sconfitti: battuti da noi che restiamo qui, umani, e annientiamo ogni giorno con il nostro amore, il nostro vivere orgoglioso, la loro vigliaccheria assassina.