Archivio tag | brescia

Ipomoea batatas

Un altro racconto dell’epidemia

unnamed

Il tentativo più azzardato fu certamente quello di vinificazione di uva nera da tavola nell’armadio della nostra classe, la seconda A delle elementari “Divisione Acqui” del Quartiere Primo Maggio di Brescia. Non so se Marina, la maestra, credesse davvero alla riuscita dell’esperimento: un paio di compagni fortunati, alla cattedra, produssero il mosto schiacciando l’uva con le mani in una bacinella da bucato di plastica. La maestra spiegò che sarebbe stato meglio usare i piedi, come facevano i nostri nonni da piccoli, ma che lì, in classe, era impossibile applicare la procedura corretta e quindi toccava accontentarsi. Quindi coprì con cura la vaschetta e quel suo contenuto grumoso di acini maciullati, mettendoci sopra un paio di sussidiari, e la fece scivolare nel buio di un armadio inutilizzato che, ci spiegò, insieme a un ambiente fresco e asciutto, era fondamentale per ottenere un prodotto di qualità. Qualche settimana e avremmo filtrato via le bucce, eliminato le impurità e proceduto a ulteriore affinamento, sempre in vasca e sussidiario, in attesa di assaggiare quel nettare con l’arrivo della bella stagione. L’anta dell’armadio non venne più riaperta. L’anno trascorse tra operazioni in colonna, dettati e Gianni Rodari mandato a memoria, finché in primavera la mia famiglia si trasferì e io cambiai scuola. Ricordo che era primavera perché nella nuova scuola, il primo giorno, la maestra Maria ci diede da studiare Marzo di Cardarelli, Oggi la primavera / è un vino effervescente. Di quel mosto non seppi più nulla, ma conoscendo le scuole italiane, posso supporre che un giorno qualcuno, un custode o un maestro alla ricerca di se stesso, aprirà l’armadio e lo scoprirà, in fondo a uno scaffale, in forma di incrostazione su conca di plastica e senza l’indicazione dell’annata, il 1986. Altri esperimenti, meno appassionanti, riguardavano gambe di sedano alimentate ad acqua e inchiostro delle bic estratto soffiando nelle cannucce, non ho mai capito a quale fine, e le più varie sterili colture idroponiche, su tutte i borlotti schiacciati da batuffoli di ovatta inzuppata contro il vetro di un vasetto e, il più grande classico, la patata americana messa a germogliare immergendola per metà nell’acqua.  

Non è nostalgia per i tempi andati, o per quella scuola un po’ naïf a cui i nostri esperimenti odierni di insegnanti a distanza mi rimandano con il pensiero. Non è nemmeno il desiderio di vedere realizzato un esperimento, dopo tanti fallimenti. È la voglia di viaggiare, nel tempo e nello spazio, la ragione per cui, mentre viviamo reclusi nelle nostre abitazioni, nel tentativo disperato di tamponare la diffusione dell’epidemia di COVID-19, ho messo a coltura una patata dolce sulla mia scrivania. Dal Quartiere Primo Maggio, un cuneo di casette operaie tra la fabbrica chimica e l’acciaieria, alle aree tropicali delle Americhe da cui questa pianta trae origine, e particolarmente diffusa nelle isole lambite dai mari del Sud, dove rattoppati legni corsari misero per secoli alle corde i vascelli della Corona, alla Cina dei Ming, anche qui l’apprezzamento locale per il prezioso tubero è documentato, all’Anguillara, dove le coltivazioni di batatas accompagnarono il Risorgimento, a questa Parma percorsa dall’urlo delle ambulanze.

La patata, prima di essere messa nell’acqua, va tenuta al buio per una decina di giorni. Io ho usato la scatola delle scarpe da ginnastica (l’imprinting della maestra Marina, in quanto ad artigianato ciabattone, ha lasciato il segno). Quindi la si può mettere sospesa in un vasetto pieno d’acqua per metà, in un luogo ben esposto ma senza luce solare diretta. Meglio aggiungere, nel vasetto, un pezzetto di carbone di legna, a evitare marciumi. Quindi, non rimane che l’attesa, lo spazio di vederla germogliare, il tempo che arrivi la fine di questa maledetta epidemia. L’attesa che qualcosa accada, la vita spogliata degli appuntamenti, delle corse a perdifiato, delle bollette dimenticate sul tavolino vicino al telefono, dei cornetti caldi, delle lezioni su Calvino.

 

 

La mia città

fornacicrotteSi sente ancora l’odore delle acciaierie, dalla ciclopedonale che corre lungo il Mella, che stamattina è intasata di podisti, di ciclisti e di padroni di cani, tutti presi in acrobazie a saltare le pozzanghere lasciate dagli acquazzoni della notte. La pioggia deve avere lavato l’aria dai gas di scarico e così l’odore delle terre che si alza dalle fabbriche domina incontrastato, come quando ero bambino. Allora era normale, le colate continue pompavano metallo fuso e vita nelle vene della città, i fumi riempivano il cielo e al tanfo di ferriera non ci facevi mica caso. Nelle nebbiose domeniche d’autunno, mio padre ci portava in Maddalena. Dalla cima del monte la nebbia di sotto era un oceano di zucchero filato, bianchissimo, una magia. Ma se aguzzavi la vista, vedevi delle macchie nere a cariare quel biancore. “Quella è l’Alfa” diceva papà: “Quella è Pietra, la Ori Martin è dall’altra parte.” Adesso quelle chiazze sono scomparse. Per la verità non c’è nemmeno più la nebbia, oggi, chissà perché. Sono scomparse per via dei filtri, dicono, che finalmente trattengono almeno una porzione di inquinanti, ma sono scomparse soprattutto perché inesorabilmente le linee di produzione si spengono,  si trasferiscono altrove, lasciando sole le bandiere della FIOM, fissate con lo scotch da pacchi ai cancelli davanti agli stabilimenti fermi. Per questo l’odore delle acciaierie, sulla ciclopedonale lungo il Mella, è una sorpresa. Come quei ruderi di architetture industriali che vedo spuntare all’improvviso, scorticati, assediati dalle sterpaglie, alla mia destra, alla mia sinistra, mentre corro verso nord, sopra Collebeato.

È questo quello che rimane di un modello produttivo che ha fatto la fortuna di Brescia. Questo, e tutti gli inquinanti che ammorbano la falda acquifera, tra i quali robaccia radioattiva come il Cesio 137, porcherie che mi scolerò assetato dopo la salutare corsetta mattutina. Dicono i vecchi: “Che vuoi che sia? Sarà vero che l’acqua è velenosa? Mah… Io l’ho sempre bevuta…” Come a dire che è meglio non indagare troppo, perché in fondo era necessario ridurre così il territorio, perché l’industria pesante desse lavoro a tutti, e anche gli operai si facessero la macchina e la casa pagando il mutuo e mandassero i figli a scuola e all’università. La democrazia del lavoro: ne valeva la pena, dicono. Mi fermo sotto le  fornaci di Ponte Crotte, tre gioielli di archeologia industriale eretti nel XIX secolo per cuocere la pietra del fiume e ricavarne calce, oggi in rapido declino per l‘incuria degli amministratori. Un luogo simbolo, forse. Un luogo dove si può decidere che tutto sia cominciato. Mi fermo qui e vi chiedo, streghe che grattate il cielo con le vostre forme sgangherate: “È stato giusto così?” Ma tanto voi non rispondete e io non so perché vi interrogo, perché arrivo fino a qui . Forse è soltanto che la mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva, e il mio non sta in cima a un’erta, ma qui dove lo scroscio delle acque marroni del fiume si mescola con il fragore della tangenziale, vicino ai cancelli di ferro dell’Iveco.

Proposta Virdis

Dagli appunti di E.S., giornalista, opinionista TV e, in una botta di vita, aspirante ideologo democratico.

Parliamoci chiaro: di fronte ai dati drammatici relativi alla disoccupazione giovanile nel Paese, più di un milione di senza lavoro tra i 18 e i 29 anni, un tasso di disoccupazione del 28%, urgono soluzioni drastiche. Il tempo delle chiacchiere è finito. Accantoniamo sterili discussioni sulla flessibilità in ingresso e in uscita, su contratti unici, defiscalizzazioni e blablabla. Ricette vecchie, bollite, buone solo per innescare i combattimenti tra pitbull nelle arene televisive: “Su chi punti? Su Landini o sulla Santanchè?” “Sulla Santanchè, Landini parte forte, ma finisce sempre che gli cascano gli occhiali e così le prende.” Lasciamo perdere, dicevo, le solite soluzioni e facciamo nostre le innovative proposte che vengono dal basso. Per carità, non troppo dal basso, non dai giovani disoccupati, perché se sono giovani e disoccupati hanno sicuramente qualcosa che non va, ma piuttosto da quella che potremmo definire “classe dirigente periferica o di piccolo cabotaggio”. Proprio in questi giorni, un mirabile suggerimento su come affrontare la piaga della disoccupazione giovanile ci viene dall’assessorato all’Istruzione del Comune di Brescia. Per ovviare alla cronica mancanza di fondi nelle scuole cittadine, ha previsto l’istituzione di un albo che raccolga la disponibilità di professionisti e insegnanti in pensione da utilizzare per supplire alla carenza di personale. Questi anziani in cattedra lavoreranno gratis e si occuperanno soprattutto di assistenza agli alunni stranieri. Gli anziani impiegati libereranno posti da fruitori di pensione, in maniera che gli under 30 possano trascorrere pigri pomeriggi al bar tracannando bianchini e giocando a briscola, affollare le tombole organizzate dalla circoscrizione, indossare le casacche arancio dell’AUSER per far attraversare la strada agli scolari, andare alle manifestazioni della CGIL. In questo modo le lunghe liste dei centri per l’impiego si alleggeriranno. La pregevole iniziativa del comune lombardo potrebbe, perché no, essere estesa ad altri territori e, con un intervento legislativo a livello nazionale, ad altri settori lavorativi pubblici e privati. In questo senso mi appello in particolare alla profonda sensibilità giovanile del probabile futuro premier Matteo Renzi e alla sua tendenza ad abbracciare qualunque causa nelle more di capire di cosa si tratti. Particolarmente fecondo, a parere dello scrivente, sarebbe l’utilizzo di anziani chirurghi in pensione, dalla mano fermissima e dalla vista di lince, per coprire i turni nelle sale operatorie dei nostri ospedali (dove potrebbero occuparsi, nel caso, solo dei pazienti stranieri). E che dire poi di tutti quei piloti ultraottantenni, ma dai riflessi ancora fulminei, che potrebbero essere reintegrati a gratis per condurre, sotto le feste, tutti quei voli supplementari diretti in Albania, Marocco, Tunisia o Moldavia? Inoltre alcune vecchie glorie potrebbero sostituire le onerose prestazioni dei giovani calciatori: chi non rivedrebbe bene il baffone di Pietro Paolo Virdis, magari al posto della crestina di Balotelli, al centro dell’attacco rossonero?

Cosa dite? C’è qualcosa che non torna? C’è un problema di reddito per i giovani? Non mi pare, non credo che i soldi siano un problema, per me.

The flowers in the dustbin

deledda2

We’re the flowers in the dustbin […] We’re the future, your future

Sex Pistols

Imponente figura androgina avvolta nel grembiule blu, chioma scarmigliata biondo cenere, sguardo arcigno, voce roca plasmata da due pacchetti al giorno. Arrivava a scuola presto, al mattino, per correggere i nostri quaderni prima dello squillo della campana. Quando entravi in classe e la trovavi lì, in cattedra, dietro al pesante portacenere in vetro traboccante cicche morte, le tue deduzioni di bambino ti portavano a pensare che fosse lì da sempre, che la maestra vivesse lì seduta, insomma, senza mangiare né bere, semplicemente ciucciando MS. La maestra, lo dicevano tutti, era bravissima. Severissima certo, ma bravissima. Te la facevi sotto quando sbraitava, ma era bravissima. Era molto anziana, perciò era bravissima, come sussurravano concordi mamme e papà che, sospetto, avevano pure loro una discreta fifa ad incontrarla, soprattutto quando venivano convocati “con urgenza”.

Recentemente ho ritrovato un mio quaderno di quarta. Uno di quelli che voleva lei: “alto, con le pagine incollate al dorso”, non di quelli tenuti insieme da punti metallici, inadatti a strappare le pagine. Certo, perché se un compito era fatto male, lei te lo faceva a pezzettini davanti agli occhi e a te non restava che rifare tutto. Sbirciando tra le pagine, mi sono imbattuto in un mio tema e l’ho scorso rapidamente, con un po’ di nostalgia e curiosità: “Com’ero bravo, però!” Ho pensato, paragonandomi funambolicamente ai miei alunni adolescenti di oggi. “Vediamo un po’ cosa avevo preso…” corro con lo sguardo al giudizio, in fondo alla pagina: “Non ho potuto correggere il testo perché la calligrafia è illeggibile. Ricopiare!” Nelle pagine seguenti c’era il tema ricopiato per bene, con il suo giudizio in fondo: “Benino”.

La mia maestra, rigorosamente unica, non era insomma molto democratica, almeno per i canoni odierni. Niente giochi, tanti dettati, un mucchio di compiti, di libri da leggere, di poesia da mandare a memoria… e che poesia: Giovanni Berchet se andava bene, sennò Luigi Mercantini, roba così. Una volta alla settimana si facevano gli “esercizi ginnici”, ve li lascio immaginare. Con il Natale veniva la “recita” nella quale, solitamente, facevo il pastore infilandomi in bocca una grossa pipa di mio zio. In cortile non si usciva mai, non per giocare, non per la ricreazione, figurarsi per fare lezione seduti in cerchio a primavera, come facevano i fortunatoni delle altre classi. La scuola non contemplava il giardino.

Oggi sono molto grato alla maestra. Non per aver corretto le mie irregolarità ortografiche o avermi insegnato a fare i conti. Né per avermi inculcato il piacere del leggere e dello scrivere, somministrandomi letture come cucchiaiate di medicina amara. A quello, forse, saranno servite anche le cure della prof delle medie, ancor più anziana e truce di lei. Sono molto grato, alla maestra, per avermi risparmiato il cortile della scuola, le corse nell’erba, i giochi di bimbo con i lombrichi e le formiche.

Il cortile della mia scuola elementare, oggi, è off-limits. I bimbi non ci possono più andare, fanno l’intervallo su una piattaforma di cemento. Il terreno, come quello di tutti i giardini del quartiere Chiesanuova e di vaste zone della parte Sud della città di Brescia è contaminato: diossine e, soprattutto, PCB. Una sostanza tossica prodotta fino al 1983 da un’industria, la Caffaro, che ha riversato liberamente le acque di lavorazione avvelenando la città. Gli operai addetti alla produzione negli stabilimenti di via Milano, rinchiusi là dentro, affogati in vapori letali, per sopravvivere succhiavano l’aria attraverso lunghi tubi di gomma con un filtro in cima. A loro veniva chiesto di scaricare veleno contaminando per sempre i terreni sui quali, nel frattempo costruivano le proprie case, crescevano i propri figli, coltivavano i propri orti, rilassandosi a zappare al sole freddo delle domeniche mattine d’inverno. Perché con le mani in mano, proprio, non riuscivano a stare.

Le foto dei bambini della scuola Grazia Deledda, oggi, ritraggono sorrisi e scarpe da ginnastica che si rincorrono sul cemento, a un metro dal PCB, due passi dal terreno tossico. I loro occhi a mandorla, ribelli, sono azzurri come i miei; la loro pelle, scura, è chiara come la mia. Ci rincorriamo da decenni su questi prati cancerogeni. Per la nostra salute le amministrazioni che si sono succedute, di diversi colori, non hanno fatto nulla. La salute degli operai che hanno costruito la ricchezza di questa città, il futuro dei loro figli, per la classe dirigente canaglia locale, non vale un’acca.

Tutto quello che le istituzioni ci hanno dato sono le cure, casuali, di una maestra all’antica. Non ce lo dimenticheremo. 

Nati il 28 maggio

hqdefaultCammini con le spalle belle diritte, nonostante il pancione che avrà più di otto mesi, perché hai fatto il tuo dovere. Respiri l’aria che sa di pioggia, hai una fame da morsicare il primo che passa. Il corteo si è appena concluso, il comizio è in corso nella Piazza della Loggia, la gente ascolta, attenta. Ma i comizi ti hanno sempre annoiato, tutta quella retorica, quella solennità. E allora ti incammini per andare verso casa, una Leonessa dallo sguardo fiero, piuttosto affaticata, ma felice. Il tuo compagno ti vuole riparare dalla pioggia sottile, ma l’ombrello è troppo piccolo e così, da intellettualoide impedito quale è, fa quello che può, rischiando persino di ficcarti una stecca nell’occhio. Ad un tratto il botto, le urla, il sangue, la gente in fuga: c’è chi cade, chi spinge, chi piange. Un ragazzo ti urta da dietro e cadi sulle ginocchia, non si è nemmeno accorto di averti colpita, lo vedi saltare via dall’orrore a grandi balzi. Resti lì, un istante, cerchi di capire, di renderti conto, di tirare un po’ il fiato, prima di tentare di rimetterti in piedi. Ti senti afferrare da sotto le ascelle, ti senti mettere in piedi, di peso. Cominci a sistemare un passo dietro l’altro, senti che in due ti sorreggono, mentre altre tre o quattro persone ti riparano da quella massa in rotta, disperata, l’intellettualoide è ancora lì che ti regge l’ombrello, che pirla! Ti ritrovi in via San Faustino, sana e salva, ti pieghi in avanti, ti afferri le cosce, ti soffermi a guardare le chiazze di bagnato sporco sui pantaloni di tela. Tuo figlio è salvo, vedrà la luce tra qualche giorno.

Tuo figlio siamo noi. Noi, tutti, figli dei corpi offesi dalla loro bomba, noi che siamo sangue di quel sangue versato sul selciato e subito lavato via dai carabinieri, uomini di Stato così zelanti. Siamo nati il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, nella Resistenza, e abbiamo dovuto imparare alla svelta a vivere contro la loro violenza, a spenderci contro la loro fredda volontà sterminatrice. Lo abbiamo dovuto fare da soli, spesso, praticamente sempre, perché le Istituzioni hanno preferito guardare da un’altra parte, tutte. Ma ce l’abbiamo fatta, siamo qui, presenti, non ci hanno fermato le loro esplosioni, le loro minacce, le loro aggressioni. A dispetto dei loro piani di rinascita, dei loro sotterfugi, dei loro depistaggi, dei loro intrighi oscuri e maledetti, siamo cresciuti nella consapevolezza, nella testimonianza. Inoltre, purtroppo per loro, abbiamo sviluppato una memoria di ferro, che non si incrina nemmeno con l’età, che non cede il passo alla voglia di lasciare andare, perché oramai son 39 anni, perché adesso vai a sapere e chi ci capisce più.

Possono riparare in qualsiasi Giappone, o riposare in qualsiasi cimitero, questi aguzzini e i loro mandanti, ma rimangono degli sconfitti: battuti da noi che restiamo qui, umani, e annientiamo ogni giorno con il nostro amore, il nostro vivere orgoglioso, la loro vigliaccheria assassina.

La muffa

L’Era fascista ci ha levato l’incomodo esattamente alle 13.30.Laboriosa è stata la sua rimozione.

da L’Era fascista in magazzino. Funerali di 4ª classe, in “Il Giornale di Brescia”, 13 ottobre 1945

200733071524_Ridimensiona-di001La muffa si forma in un punto difficile da raggiungere, nel soffitto di uno sgabuzzino così angusto che non si riesce nemmeno a piazzarci per bene la scala. Cresce lassù, in un angolino in alto, dietro la curva del tubo che raccoglie i gas di scarico della caldaia. Si forma lì, ogni anno, nella stagione delle piogge, per poi crescere indisturbata e allargarsi divorando centimetro dopo centimetro un’area direttamente proporzionale alla mia pigrizia, ma sempre piuttosto estesa. Alla fine, ogni volta, grazie a un pizzico di ipocondria che mi fa sospettare che il fungo parietale possa diventare foriero di chissà che esotica malattia, mi scuoto e provvedo alla pulizia. Nel tempo ho sperimentato, ad ogni pulizia, nuove tecniche nella speranza frustrata che rendessero il lavoretto definitivo. Ho annaffiato speranzoso gli spugnosi miceli con sostanze di ogni genere: alcool, ammoniaca, candeggina; ho sottoposto inutilmente la parete a un trattamento con un prodotto puzzolente acquistato in colorificio; in preda al pensiero magico sono persino arrivato a bruciare essenze che secondo il parere di una squaw, che gestisce un negozietto etnico in città, agiscono da fungicida. Niente da fare, la maledetta se ne sta nascosta per un po’, magari anche per dei mesi, ma alla fine fa capolino, prima soltanto una lunetta dietro al tubo che sembra, beffarda, un sorriso e poi, in breve, un grumo informe. E così, oggi, anziché coccolarmi al primo sole ho fatto una prima ispezione, per vedere lo stato di avanzamento della muffa e pianificare un nuovo intervento di asportazione. Mentre fissavo negli occhi il nemico, cercando di intimorirlo, ho pensato alla vicenda di Era fascista, una monumentale statua realizzata nel 1932, che i bresciani chiamano il Bigio. Dominava Piazza della Vittoria, il Bigio, imponendosi con i suoi otto metri di altezza e con il suo monumentale, marmoreo pene. Con la Liberazione è stato deposto, impacchettato e ficcato in un magazzino comunale in attesa di tempi migliori. L’attuale amministrazione comunale, in una prospettiva di riabilitazione dell’era fascista, vuole ripristinare il monumento, con un’operazione che, tra l’altro, ha un costo di 460 mila euro, denaro pubblico che in tempi difficili potrebbe essere investito in maniera ben più proficua. Difficile dire se l’operazione avrà successo, certo è che ancora una volta il paese dimostra di non essere riuscito a chiudere i conti con il fascismo. In effetti, guardando solamente agli ultimi mesi, si segnalano apprezzamenti non richiesti per la dittatura da parte di un vecchio premier piazzista, ma anche dalla capogruppo del Movimento di Grillo alla Camera. Inoltre lo stendardo della X Mas è stato sventolato impunemente durante una manifestazione indetta dal sindaco di Roma Alemanno, a sostegno di due marò accusati dell’omicidio di due pescatori indiani.

L’idea che esistano un fascismo buono, quello del consenso, delle bonifiche e di una specie di stato sociale, e un fascismo cattivo, che inizia con le leggi razziali e degenera nell’abbraccio di Hitler, è sostanzialmente un’idiozia. Un’idiozia che tuttavia è sempre più diffusa e condivisa. Sembra impossibile scordarsi come il fascismo sia nato e si sia imposto nel sangue, con le violenze del fascismo agrario, con l’omicidio Matteotti, con la persecuzione degli oppositori politici. Pare assurdo dimenticare come la violenza del regime trovi forse il suo culmine prima del ’38, con la guerra d’Etiopia, un’aggressione condotta con il largo utilizzo di armi chimiche. Tuttavia è evidente che qualcosa è successo, in Italia, se questa idea menzognera delle cose buone fatte dal Duce ancora salta fuori e prolifera, come un fungo, una muffa puzzolente e fastidiosa.

Non so cosa sia che nutre il fascismo: l’indebolirsi dei nostri anticorpi democratici? L’affermarsi di una classe politica proveniente da territori ideologici e culturali ambigui? Non saprei. Quello che è certo è che ora la guardo con occhi diversi, quella dannata macchia sulla parete. Quello schifo che torna, resistente a tutto. Quella poltiglia granulosa e corrosiva, fetida. La fisso diritto e spietato le giuro tormento. Cosa potrò mai sperimentare, questa volta, contro quel fungo tenace? Un acido? Un lanciafiamme?

Non è successo niente

A Brescia, il 28 maggio 1974, non è successo niente.

• Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
• Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
• Euplo Natali, anni 69, pensionato
• Luigi Pinto, anni 25, insegnante
• Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
• Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
• Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
• Vittorio Zambarda, anni 60, operaio

Otto vittime senza giustizia.

Bossi e l’apartheid

Ho visto con i miei occhi un leghista prendere a calci il piattino di un mendicante, un sottovaso di plastica verde, sporco. Davvero, in via X Giornate, a Brescia, la sede della Lega sta proprio lì, nella via più risorgimentale di una delle città più risorgimentali. Era il 1992, credo. Non si vestivano ancora di verde, non usavano il sole delle Alpi. Erano gli stessi di oggi.

Non me ne frega niente di vedere processati un bamboccione tonto e altri capri espiatori per qualche soldo rubato. Voglio vedere sotto processo una schiera di uomini politici che hanno costruito le loro carriere facendo di quel calcio al piattino un programma per il paese, declinato in leggi e pratiche abominevoli: Bossi-Fini e accordi con la Libia per i respingimenti su tutto. Li voglio alla sbarra per le centinaia di cadaveri sepolti nell’azzurro del Mediterraneo. E li voglio lì insieme a tutti coloro che, a destra e a sinistra, hanno scimmiottato le loro politiche.

Ma so di avere poche speranze. A chi li vota, poco frega delle loro porcate finanziarie, mentre frega molto di quelle politiche. Così, impotente, ho deciso di rovinarmi il pomeriggio frugando sul sito ufficiale della Lega. Ci sono tutti i manifesti dal 2000 ad oggi. Tra poster che incitano all’odio razziale e all’odio per gli omosessuali, tra cartelloni che millantano rischi di epidemie di AIDS e di estinzione per la razza padana, ne ho scelto uno da regalarvi:

lotta di liberazione contro l’apartheid. Come dire: la lega è come l’ANC e Bossi è il nostro Mandela.

Ma come vi permettete? Voi, canaglie, che disinfettate i sedili dei treni dove viaggiano le donne nigeriane.