Archivio | ottobre 2014

Non c’è di che

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Come cacciatori cheyenne sulla strada del bisonte, come guerrieri apache acquattati in attesa della battaglia, le ragazze e i ragazzi che tirano su il fango si pitturano il volto, tracciandovi spessi segni con la melma marrone. Cacciano fuori espressioni da veri duri e alla faccia di chi li vuole pii angioletti ardenti d’inconsapevole bontà ci ricordano che gli angeli non esistono. Esistono ragazze e ragazzi che sono sempre, naturalmente, tutti giovani e belli. Noi, che facciamo schifo, preferiamo attribuire caratteri divini a comportamenti normalissimi, in modo da poterci tranquillamente guardar bene dall’imitarli e, al contempo, sentirci assolti.

Il torrente non è entrato nel negozio del parrucchiere, ne ha solo lambito la vetrina, ma ha depositato sulla strada e sul marciapiede antistante un soffice strato di sedimento cremoso. Il titolare è molto preoccupato: con la via ridotta in quel modo, anche se il negozio è pulito ed efficiente, i clienti oggi non arrivano. Così ha mandato Malati, la donna indiana che lavora per lui, a creare un passaggio nella guazza. Lei si dà da fare armata di spazzolone di plastica e di una grossa pala smaltata di rosso, probabilmente una di quelle distribuite dai furgoncini del Comune. Il proprietario del negozio fuma con la schiena appoggiata allo stipite dell’ingresso e guarda preoccupato l’orologio: sono passate le quattro, il pomeriggio sta trascorrendo in fretta e già la mattina è andata persa. Probabilmente pensa che Malati sia troppo lenta a spalare, allora chiama un gruppo di questi ragazzi che, con i loro segni tribali sul volto, si accaniscono contro un cumulo di detriti che ostruisce un tombino. “Oh, siete mica dei volontari?” “Sì, ha bisogno?” “Che bravi ragazzi! Non è che mi dareste una mano a ripulire qui, davanti al negozio, così la gente può passare?”

Malati lavora dieci ore al giorno: shampoo, massaggi, tagli, tinte, pieghe, pulizie. Malati fa di tutto, sei giorni alla settimana, dalle nove alle diciannove. Malati guadagna 35€ al giorno e ha un contratto che dice che lavora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Potrebbe anche andarsene e il suo datore di lavoro se la vedrebbe nera, di altre brave come lei non ce ne sono mica in giro. Ma anche se lo facesse, cambierebbe poco: tutti gli altri parrucchieri che ha sentito pagano così. E così passa la vita restando al proprio posto, a rigare diritto per pagare, chissà con quali miracoli, l’affitto e l’istruzione dei figli. Colpa di un mercato del lavoro selvaggio, dell’ampia disponibilità di apprendisti da sfruttare nel settore. Colpa delle istituzioni, che non proteggono, non tutelano la dignità e la qualità della vita delle persone. Non di fronte alla furia del fango, non davanti alla rapacità umana. Però impongono riforme del lavoro che tutto sono tranne che l’unico Jobs act di cui c’è davvero bisogno: quello che ci liberi da ogni sfruttatore.

“Certo, arrivo subito!” cinguetta una ragazza emergendo a fatica da un banco di sabbie mobili. Si avvicina al parrucchiere che le sorride facendo luccicare il dente d’oro, mentre ravana il taschino in cerca del pacchetto di Merit. “Grazie, bella!” “Uh, prego, non c’è di che. Tenga, questa è la pala!” Lui si ritrova a reggere il badile per il manico, lo stupore disegnato nella bocca aperta e negli occhi fissi al vuoto. Lei gira i tacchi e se ne va. Malati si gira di spalle perché proprio non ce la fa a nascondere il sorriso.

Fedeli alla linea

Annarella-CCCP-3Stasera al circolo si esibiscono ex-CCCP con Angela Baraldi alla voce e così la sala si riempie in fretta. La concorrenza, del resto, non è granché: da queste parti, un live decente lo si vede ogni sei mesi, a meno di non spostarsi nelle province limitrofe. In più un’ordinanza antirumore a Cinque Stelle caccia a letto gli avventori dei locali dell’Oltretorrente a mezzanotte o poco più. E in TV danno Ballando con le stelle. Come non fare allora il pienone buttando Zamboni sul palco a suonare Punk Islam e compagnia bella? Mancano pochi minuti al concerto e la coda al banco del bar è spumeggiante. C’è uno che spiega alla barista come si fa un vero gin tonic, lei lo ascolta con la stessa faccia intenta che mette su al mattino quando va a lezione di Letteratura del Rinascimento. La cosa provoca malumori e borbottii, fino all’esasperato: “E alooora!”. Lei ficca in fretta il bicchiere di plastica nella zampa destra del tipo, versandogli metà del contenuto sulla camicia. La macchia che si allarga sul costato, lui che gongola allontanandosi con un sorriso beato.

Ogni sorta di creatura datata e stropicciata si aggira stanotte nell’oscurità della pista: parrucconi cotonati sale e pepe, facce stravolte sotto spessi strati di cerone bianco. Infermiere strizzate in vestiti originali anni ho tanta disperazione, conservati per le grandi occasioni; professori spelacchiati con il maglioncino di lana e punkettoni di professione. Bocche sdentate, ghigne solcate in guisa di regnatela, pance che spingono sotto le camicie e spalle curve sotto il peso di borchie e giacche di pelle. Il postino si è truccato gli occhi di nero e forse si è messo anche un rossetto scuro, ma non ci giurerei. Salta fuori che dopo il concerto la serata vira al dark e allora si spiega anche la considerevole calata di vampiri da tutto il circondario. Altissimi, scavati nel volto e nel corpo, pelo canuto a ciuffi lunghissimi in testa e sul dorso delle mani, alito probabilmente fetido: li riconosci subito. La Sposa cadavere ha un filo di sangue vermiglio che le cola da una piega delle labbra affilate.

Quando la band attacca, sotto il palco si scatena il finimondo e per selezione naturale nel pogo sono i deboli che cadono subito. Fuori il primo che si controlla con le dita la dentatura, forse un ponte ha ceduto. Via il secondo, piegato a metà, viola in faccia, si tiene i coglioni con due mani. Un amico gli piega indietro la testa e gli versa in bocca mezza birra gelata che gli va di traverso. Poi un altro lo afferra per i piedi e lo trascina a bordo pista. Il terzo gattona tra i calci tentando di recuperare gli occhiali fracassati, che schizzano impazziti qua e là scivolando sul velo di condensa e birre versate che avvolge il pavimento. Finalmente una ginocchiata nella nuca lo manda al tappeto. È un duro lavoro, stare qua sotto. Chi ci sta da vent’anni, chi da trenta, il tizio che mi tengo davanti e uso come scudo umano, probabilmente da cinquanta. Sotto il palco prendiamo colpi e li diamo, da sempre. Siamo un branco di sopravvissuti e da sempre TIFIAMO RIVOLTA, perché c’è sempre una buona ragione, da Craxi a Renzi, per la rivolta.

E noi da sempre, solo, TIFIAMO RIVOLTA. Solo, TIFIAMO, da sempre. Nient’altro.