Non c’è di che
Come cacciatori cheyenne sulla strada del bisonte, come guerrieri apache acquattati in attesa della battaglia, le ragazze e i ragazzi che tirano su il fango si pitturano il volto, tracciandovi spessi segni con la melma marrone. Cacciano fuori espressioni da veri duri e alla faccia di chi li vuole pii angioletti ardenti d’inconsapevole bontà ci ricordano che gli angeli non esistono. Esistono ragazze e ragazzi che sono sempre, naturalmente, tutti giovani e belli. Noi, che facciamo schifo, preferiamo attribuire caratteri divini a comportamenti normalissimi, in modo da poterci tranquillamente guardar bene dall’imitarli e, al contempo, sentirci assolti.
Il torrente non è entrato nel negozio del parrucchiere, ne ha solo lambito la vetrina, ma ha depositato sulla strada e sul marciapiede antistante un soffice strato di sedimento cremoso. Il titolare è molto preoccupato: con la via ridotta in quel modo, anche se il negozio è pulito ed efficiente, i clienti oggi non arrivano. Così ha mandato Malati, la donna indiana che lavora per lui, a creare un passaggio nella guazza. Lei si dà da fare armata di spazzolone di plastica e di una grossa pala smaltata di rosso, probabilmente una di quelle distribuite dai furgoncini del Comune. Il proprietario del negozio fuma con la schiena appoggiata allo stipite dell’ingresso e guarda preoccupato l’orologio: sono passate le quattro, il pomeriggio sta trascorrendo in fretta e già la mattina è andata persa. Probabilmente pensa che Malati sia troppo lenta a spalare, allora chiama un gruppo di questi ragazzi che, con i loro segni tribali sul volto, si accaniscono contro un cumulo di detriti che ostruisce un tombino. “Oh, siete mica dei volontari?” “Sì, ha bisogno?” “Che bravi ragazzi! Non è che mi dareste una mano a ripulire qui, davanti al negozio, così la gente può passare?”
Malati lavora dieci ore al giorno: shampoo, massaggi, tagli, tinte, pieghe, pulizie. Malati fa di tutto, sei giorni alla settimana, dalle nove alle diciannove. Malati guadagna 35€ al giorno e ha un contratto che dice che lavora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Potrebbe anche andarsene e il suo datore di lavoro se la vedrebbe nera, di altre brave come lei non ce ne sono mica in giro. Ma anche se lo facesse, cambierebbe poco: tutti gli altri parrucchieri che ha sentito pagano così. E così passa la vita restando al proprio posto, a rigare diritto per pagare, chissà con quali miracoli, l’affitto e l’istruzione dei figli. Colpa di un mercato del lavoro selvaggio, dell’ampia disponibilità di apprendisti da sfruttare nel settore. Colpa delle istituzioni, che non proteggono, non tutelano la dignità e la qualità della vita delle persone. Non di fronte alla furia del fango, non davanti alla rapacità umana. Però impongono riforme del lavoro che tutto sono tranne che l’unico Jobs act di cui c’è davvero bisogno: quello che ci liberi da ogni sfruttatore.
“Certo, arrivo subito!” cinguetta una ragazza emergendo a fatica da un banco di sabbie mobili. Si avvicina al parrucchiere che le sorride facendo luccicare il dente d’oro, mentre ravana il taschino in cerca del pacchetto di Merit. “Grazie, bella!” “Uh, prego, non c’è di che. Tenga, questa è la pala!” Lui si ritrova a reggere il badile per il manico, lo stupore disegnato nella bocca aperta e negli occhi fissi al vuoto. Lei gira i tacchi e se ne va. Malati si gira di spalle perché proprio non ce la fa a nascondere il sorriso.