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Il cantiere

Il corridoio plurimodale Tirreno-Brennero squarcia l’ecosistema molle del fiume con secca perentorietà. Sarà questa, quella che chiamano transizione ecologica? Una lama fredda di cemento e lamiera nella carne calda della pianura, un camion che si abbatte sulla Graziella rossa di una bimba, il rottame a terra, squassato, la ruota che ancora gira quando tutto ormai tace? Mi affaccio alla recinzione del cantiere che dorme, il reticolato arancione circonda l’area per centinaia di metri, aggrappato qua e là a sostegni rugginosi, uno scarabocchio a pennarello sulla pagina di un volume di pregio.

“Di qua non si può passare professore, c’è il cantiere,” fa il vigilante: “Se vuole arrivare alla ciclabile meglio che sale sull’argine più avanti, vede laggiù? Oltre la chiesa.” Spiana il braccio destro verso un punto indistintamente a Nord, mentre la mano sinistra esplora una rasatura non troppo recente. Guardo prima il dito che indica la direzione e poi lontano. Oltre i ruderi dell’autostrada in costruzione, la campagna, così com’è, immobile, spruzzata di cascine e pozzanghere di ghiaccio trasparente, ci giudica. Gli aironi sono bianchi alabardieri a difesa del ducato, con solenne dignità da Apache; il gheppio nel cielo ha puntato qualcosa, un bastardino misura il viale d’accesso di una proprietà inciampando su zampe troppo corte. 

“D’accordo, agente, passerò di là. Ma non le dà amarezza questo servizio? Questo suo fare la guardia, intendo, acché celermente e senza intoppi procedano questi lavori? Perché meglio avanzi questo divoramento accurato e metodico?” Mi guarda, un po’ interdetto. “Ci pensa, agente – insisto – tra un po’ di anni, nemmeno troppi, verremo qui sotto, i piloni di questi viadotti saranno ormai marci e fluidi puzzolenti percoleranno nei punti di giuntura tra i cementi, e constateremo di aver trascorso le nostre vite a guardare, rassegnati, la scomparsa dell’erba appena spuntata, verde e fragile, dei ciottoli bianchi levigati dal fiume e del profumo dell’acqua d’inverno. È il fallimento, non trova? Di un’intera generazione, la nostra.” 

Scuote la testa, indica di nuovo il Nord, dice che là è ancora bello. “Ma cosa vuole, professore? Deprimersi? Faccio la guardia al cantiere e lo so, servo chi consuma il paesaggio e gli sono fedele perché è il più forte. Del resto, mi permetta, non penserà di fare qualcosa di diverso, lei, nella sua scuola! Anche lei, se ci pensa bene, sta dalla parte del più forte: magari non quando mette un voto o scrive una pagella, ma nel complesso del suo agire, nel contesto di ciò che la scuola rappresenta e che, se ci pensa bene, è perfettamente integrato e funzionale a questo modo… a questo, come l’ha chiamato? Divoramento, già. E cosa ci possiamo fare se la terra è una cartolina stropicciata dalle mani del più prepotente? Funziona così in questo paese di draghi e, per essere onesti, non solo in questo.” 

Raccolgo un casco di plastica giallo spaccato da terra e lo soppeso tra le mani. “Sa, grande divoramento è una delle traduzioni di porrajmos, il termine con il quale le popolazioni romaní indicano lo sterminio perpetrato dalla Germania nazista nei loro confronti. Forse non ci è lecito usarlo in questo modo, certo l’idea la rende bene.”

Il cinghiale

Un racconto dell’epidemia

cinghiale-1La letteratura è menzognera fabbrica di illusioni. Tutti abbiamo letto il Decameron, o l’abbiamo studiato sul Baldi, e così, alla notizia della serrata delle scuole, dell’istituzione di una Zona Rossa, del dilagare dell’infezione, la boccaccesca brigata, isolata in campagna a comporre un cosmo ordinato di piaceri, facezie e sogni belli, è parsa da subito alternativa naturale al caos lombardo. Nei borghi appenninici, il cigolio delle imposte ha annunciato il ripopolamento delle seconde case, mentre credenze incrinate e tavolacci di legno si risvegliavano sotto l’acciottolio rinnovato dei piatti. Genitori in fuga hanno sventolato le scacchiere bianche e rosse delle tovaglie per imbandire cibi genuini e semplici, i bambini hanno tirato fuori vecchi giocattoli dalle scatole di cartone impolverate e qualcuno ha provato a capire se la grappa dimenticata sulla cornice del caminetto, nella sua bottiglia con dentro il veliero, fosse ancora buona. Oneste brigate, per la verità, un po’ più nucleari e meno licenziose dell’originale, comunque unite e forti della magia dello stare in paradiso ad osservare il mondo in fiamme.

Ma la letteratura è un imbroglio e, in effetti, non è che Boccaccio fosse proprio un infettivologo. Selezionare , in una Fiorenza impestata, dieci giovani perfettamente sani da mettere in isolamento (perché poi ci sono il periodo di incubazione, i pazienti asintomatici e le cento variabili di cui siamo ormai esperti) sarebbe stata impresa dalla riuscita decisamente improbabile. Nella villa di campagna, se fosse esistita, avremmo trovato re e regine intenti a ragionar di “sozzi bubboni di un livido paonazzo”, a rantolar tra i catarri di forme polmonari e della loro letalità. Ispirarsi al Decameron per affrontare l’epidemia è un’idea geniale se l’intendiamo come un aggrapparci alla forza salvifica della narrazione, è pensata piuttosto tócca se invece la pigliamo come un ricalcare il sogno di isolamento dal mondo di un gruppo di privilegiati. Inoltre, non andrebbe sottovalutato il fatto che le potenzialità creative della middle class in villeggiatura sono piuttosto carenti, sicuramente nemmeno lontanamente all’altezza di quelle dei vari Dionei ed Elisse.

Questa nostra vita nei boschi fuori stagione, insomma, dopo un impatto di incanto, si fa un po’ più spenta, più malinconica e ansiosa: non protegge, più di tanto, dal virus ed è tarlata dalla noia. Svanita l’illusione di fare dell’epidemia un periodo da declinare al languore di un intontimento leggero, che cosa ci aspetta? Questo è quanto abbiamo iniziato a chiederci, noi che ci siamo autoisolati in questo modo.

Undicesimo giorno, ore sedici, allenamento prima che il sole tramonti. Attraverso il bosco lungo il sentiero, di corsa, sotto la pioggia. Le gambe rullano rimbalzando sulla gomma delle scarpe rosse e la terra è come vibrasse, spinta via sotto la patina sottile di fango vischioso come bava di lumaca. Da un lato il massiccio della Pietra svanisce a lampi, accecato da coltellate di sole tra la nebbia e le nuvole, oltre gli alberi nudi, tralicci storti contro il cielo metallico. Appare all’improvviso, con lo schiocco secco che fa un ramo spezzato, più forte del ticchettio della pioggia. Corre parallelo al tracciato, appena a monte, a tre o quattro metri da me. La paura diventa una contrazione innaturale dei muscoli della schiena, mentre le gambe girano a mille, molto più forte di quanto sarebbe prudente su un terreno così sconnesso. Non posso girarmi a guardarlo, rischio di mettere un piede in fallo, ma avverto la sua presenza di animale orgoglioso e possente. Cento, duecento, trecento metri. Penso assurdamente al romanzo geniale di Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance. A quanto sia divertente. Il cinghiale non è un nemico, ma una coscienza critica spiritosa ed ecologista. Corro, senza più paura, sempre più forte, senza sapere da dove passi questa pista, né dove finisca. Quando mi accorgo di essere rimasto solo, non so più dove sono, non so in che momento esattamente lui si sia stancato di correre. Ma so che tutto andrà bene. La letteratura è menzognera fabbrica di speranza.

Respirare

Society, you’re a crazy breed

I hope you’re not lonely, without me.

Eddie Vedder

Si lascia la statale per la provinciale, quindi la provinciale per la strada consortile, qualche zig-zag tra le molte sfumature di un autunno pastello ripassando i contorni dei rilievi dolci della pedemontana, infine si abbandona l’asfalto e ci si arrampica tra polveri e puzza di frizione sullo sterrato che porta a un grumo di case di sasso. Qui, un pranzo domenicale ce lo si aspetta a base di qualche cosa di rosso buttato sulla griglia, che sa un po’ di fumo di legna e un po’ di sangue, invece S prepara una zuppa di pesce, con l’intingolo e tutto e anche i crostini, molto gustosa. Il pesce è di mare, perché quello che si tira su dal fiume, qui, è inquinato e va bene, al massimo, per i gatti, ci spiega L. “Poveri gatti!” si dispera Emiliana, cacciandosi le dita tra i capelli. “Beh, sempre meglio dei mangimi…” puntualizzo considerando tra me che non ho mai dato al mio cane altro che cibo preconfezionato. “Infatti” sentenzia L, che oltretutto è, per mestiere, l’esperto di animali.

Dopo pranzo, e la strepitosa vittoria della Fiorentina orecchiata alla radio, unico contatto con il mondo esterno, la sera scende improvvisa. Il buio è totale, il centro abitato più vicino a chilometri da qui. Guido verso casa con gli abbaglianti sparati, senza incrociare nessuno e interrogo la scelta di S e L: una vita qui, dove c’è la legna da spaccare per scaldarsi e il telefono non prende, per respirare, per quanto possibile, al ritmo del pianeta, delle stagioni, alla faccia di tutte le contraddizioni. Perché la città, il lavoro, il traffico, l’avere sempre qualcuno attorno, tutta questa umanità chiassosa e disperata, in qualche modo, ti respinge.

A casa piazzo il riscaldamento a mille, nonostante la Parma minacciosa, in piena, mi rammenti le mie responsabilità in fatto di riscaldamento globale. Leggo che nei mari a sud della Thailandia, tra il turchese di acque incredibili, vivono gli ultimi moken, pescatori nomadi che trascorrono otto, nove mesi l’anno sui loro kabang, specie di canoe scavate nei tronchi, respirando al ritmo del pianeta, delle maree, vivendo di pesca e raccolta. Per la tradizione moken, la prua del kabang rappresenta una bocca in cerca di cibo, mentre la poppa simboleggia il tratto estremo del tubo digerente. Lo tsunami del 2004 ha portato alla ribalta delle cronache mondiali questi “zingari del mare”, ma ne ha anche segnato il declino come “civiltà”, distruggendo gran parte del pesce sul quale si fondava la loro economia. Il presente dei moken è fatto in alcuni casi di resistenza, in altri di adattamento alla vita sulla terraferma, in molti di alcolismo e abbandono. Così, perché anche se vivi al ritmo dei suoi sospiri, spesso la natura ti caccia, ti respinge.

“Il rapporto tra uomo e natura è complesso” mi ripeto impastando la pizza per la cena, “analizzarlo in profondità è superiore alle mie forze”. Però un bel tema sull’immaginare una vita a bordo di un mezzo di trasporto, in balia della Fortuna, a quelli di seconda, domani non lo leva nessuno.

Predatori

Questo racconto, che parla di ferocia animale, è dedicato, per esempio, a tutte quelle banche che, fino a pubblica denuncia, hanno intascato commissioni sui versamenti a favore dei terremotati, si sono fatte belle di promesse di finanziamenti a tasso agevolato che non hanno erogato e altro ancora.

 

Pioggia fastidiosa e intermittente. Protetto dal gazebo di un locale del centro, un piccolo gruppo di persone, tra cui Emiliano B, ascolta attento i racconti di un pescatore. Un pescatore subacqueo, non uno di quelli che se ne sta, un po’ artigiano e un po’ filosofo, sugli scogli o sulla barca coccolato dalla luna, ma uno di quelli che esplora le profondità alla ricerca delle prelibatezze più particolari. A vederlo, uno non lo direbbe che questo tipo sorridente e tranquillo ama ingaggiare furiosi corpo a corpo con le bestie più strane nei fondali del mar Ligure. Eppure è proprio così, mostra fotografie di sciabole e torpedini e orate e racconta di come affondare il coltello nel cranio di un serpentone, come prenderlo schivandone le fauci. Ha fegato, il pescatore. Racconta di colpi maestri con il fucile poi mostra, dallo schermo del telefonino, nuove incredibili immagini di mostri marini. Uccide per nutrire il suo appetito immenso e si sbafa tutto: mangiamorti e murene, ostriche e anguille. Porta a casa e cucina con semplicità, come va trattato il pesce: griglia, frittura, aglio peperoncino e vino bianco, cose così. Il pescatore, ogni tanto, fa visita a luoghi non consentiti, ma non caccia specie proibite. Parla anche della ferocia dei delfini: “Avete mai visto i delfini mangiare?” “No, che fanno?” “Eh! Non avete idea…”

Emiliano si gratta la testa e pensa alle sue battute di caccia, combattute tra gli scaffali di un ipermercato stupendo. Missioni che, a pensarci bene, hanno qualcosa in comune con la pesca del sub: ricerca di orari assurdi per evitare la ressa, animali pericolosi che si appostano sornioni tra le corsie, come murene negli anfratti delle scogliere, la speranza ogni volta di scoprire qualcosa di nuovo da buttare in padella.

Così, mentre il pescatore continua a raccontare, mentre le vicende diventano sempre più incredibili e i pesci dei fondali di qui assumono dimensioni mastodontiche, un pesce luna ha diametro due metri e lui l’ha fermato sollevando un braccio, il pugnale stretto tra i denti, Emiliano comincia a pensare all’impatto ambientale di certe pratiche. E, certo, la lama del subacqueo sarà temuta e i pesci si passeranno parola, laggiù nei fondali, sui rischi di certi incontri ravvicinati, ma la sua pesca è piuttosto onesta, l’animale può fuggire, può morsicare. Inoltre, per quanto feroce, un uomo con la fiocina è pur sempre un puntolino nell’immensità del mare. Le scatolette di tonno, invece, non sfuggono dalle grinfie del professore, così come le galline non possono sottrarre il collo alle sue mani grinzose, scampando un destino di brodo e ripieno. La sua fame immensa non si ferma di fronte alla colonna di maiali in marcia verso i prosciuttifici di Langhirano, il suo cuore non sussulta di fronte al coniglietto in vaschetta che, a metterci il pelo, somiglia al suo cane. Emiliano fa male all’ambiente più del pescatore, non c’è che dire.

Quindi, tra differenti tipi di predatori, spesso i più feroci non sono quelli che mostrano denti affilati, ma quelli che, alla sera, infilano i piedi nelle pantofole e sciabattano stanchi dal divano al bagno e di lì alla camera da letto.