Archivio | febbraio 2016

No smoking area

divieto-di-fumo

Succede che questa collega, affacciandosi alla finestra dell’aula dove ha appena terminato la lezione, sorprende Jonathan, biondino, lentiggini, risvoltini e piumino blu che non toglie mai, neanche in classe, neanche in giugno, lo sorprende, dicevo, lì a succhiarsi avido una marlboro, nel giardino della scuola, area dove da qualche anno vige il divieto di fumare. Lui vede che la collega lo ha visto, con aria spavalda continua a tirare boccate plateali. Se avesse schiacciato il mozzicone e l’avesse fatto sparire, magari lei avrebbe potuto chiudere un occhio, avrebbe potuto fare finta di non averlo visto nonostante avesse visto che lui aveva visto benissimo che lei lo aveva visto. Insomma: ecco che allora quel gesto di sfida induce la prof a intervenire. “Jonathan, vieni con me in presidenza, adesso facciamo il verbale e ti paghi la multa!” Jonathan finisce la cicca con calma, rientra nell’atrio della scuola dove viene intercettato da una task force di professori ingobbiti dal peso di spessi occhiali da miopi che, capitanati dalla collega inferocita, eseguono l’arresto. Il ragazzo viene condotto in catene in presidenza nonostante protesti innocenza: “Io non stavo fumando. Io non fumo.” Sbrigate le rituali formalità necessarie a sanzionare il trasgressore, la vita, all’Istituto tecnico, pare destinata a riprendere come sempre, un po’ soporifera, summa di dolci e crudeli torpori adolescenziali mattutini, ipnotizzati dal tic tic delle gocce di pioggia sul tetto di plexiglass.
E invece no. Una scossa, una botta di vita ulteriore, dopo il già eccezionale evento della multa: un manipolo di amici di Jonathan si presenta dal dirigente, lo piglia, metaforicamente ça va sans dire, per il four-in-hand del cravattone a scacchi, e dichiara: “Noi siamo qui a testimoniare.” “A testimoniare?” “Noi siamo qui a dire, a testimoniare, a giurare che Jonathan, là fuori, non stava fumando.” “Ma se è stato visto, se sapeva di fumo e poi… cos’era uscito a fare in giardino, se non per fumare?” “Noi abbiamo visto che non fumava, siamo cinque contro uno. Quindi non fumava.” Cinque contro uno, secondo loro, fa diventare una balla verità. “Ma dove andremo a finire?” si scatena il corpo docente. “Che roba, ohibò! Che faccia tosta, ma pensa un po’, che fetenti, che ragionamenti inaccettabili! Ma dove avranno imparato a comportarsi così?! Ma guarda te. Chissà che famiglie! Che gioventù smidollata, che non si assume la responsabilità delle proprie colpe, che nega l’evidenza, sissignori, nega l’evidenza!” E tutto un accartocciarsi di indignazioni trasversali, dal bidello che porta un uncino al posto della mano destra e una benda nera sull’occhio, allo spilungone scavato che ricarica i distributori automatici, ai prof miopi, all’educatrice scultrice che ha tatuato un pipistrello sul collo, tutti e dico tutti, gridiamo coi polpastrelli ficcati tra i capelli: “Che ragazzi indecenti, che vergogna! Vergogna! Vergogna!”
Ci indigniamo, certo. Che rabbia! Come si può pensare di farla franca forzando utilitaristicamente strumenti di garanzia fondamentali. Di irridere le istituzioni in questo modo. In realtà ci arrabbiamo perché siamo poco attenti, e il flusso ininterrotto di distrattori mediatici cancella dalle nostre coscienze la consapevolezza, per esempio, che viviamo in un paese dove il Parlamento ha votato che è credibile che Berlusconi ingenuamente reputasse Ruby una nipote di Mubarak. La consapevolezza che abitiamo una società dove la mistificazione della realtà è la norma, purché esercitata a tutela di più o meno piccole soperchierie, a copertura di più o meno furbe furberie e di ogni genere di intrallazzo di potenti e potentini. I giovani che si comportano come gli adulti, che, come questi alunni, negano colpe evidenti, con una faccia tosta strabiliante, in conclusione, non fanno schifo. Almeno, non dovrebbero farlo a noi adulti. Noi abbiamo permesso che la nostra società diventasse questa collosa melma di cui i comportamenti distorti dei ragazzi non sono che il naturale precipitato.

PS
Jonathan, poi, la multa l’ha beccata. Quel che lui e i suoi amici non hanno ancora appreso è che la mistificazione è un privilegio accettato e praticato e spesso celebrato e rivendicato con orgoglio in pubblico. Ma in quanto privilegio, per definizione, non appartiene a tutti.

Il capriolo

capriolo

Il podista che percorra la ciclopedonale tra Parma e Baganzola, che si sia lasciato alle spalle la carcassa mostruosa del Ponte Nuovo e i campi congelati del Milan club, poco oltre le distese di fango molle dove sono piantate le ultime case e sparsi capannoni di aziende cadenti, e il limite della città è sancito per certo dall’anello della tangenziale, appena passato un ponticello di ferro e legno che salta un fosso, incontra, figlio di un bosco di fusti sottili come peluria sulla testa di un vecchio, un compagno inatteso, un capriolo solitario. Una fugace epifania che lo accompagna da lontano correndo una traiettoria divergente finché si confonde tra scheletri vegetali e bruma perenne. Com’è che vive, qui, tanto splendore? Cosa c’entra con questa terra di nessuno, con queste pozzanghere dove salgono bolle gassose, con questi campi butterati da crateri dove rifiuti abbandonati da sempre transustanziano in materiali nuovi e misteriosi. Che ne sarebbe di un tubo catodico dismesso nei giorni dello switch-off se fosse stato affidato alle cure incostanti degli agenti atmosferici? Di uno shopper di plastica pieno dei rifiuti di un pic-nic? Di un paio di scarpe antinfortunistiche? Di un berretto di lana rossa? La risposta è qui, dove la digestione lenta della terra, in queste rive dove sono dipinte le sorti dell’umana gente, magnifiche e progressive, non tiene il ritmo dei nostri scarti. Com’è che ci vive, un capriolo, su questa crosta corrosa? Nelle acque che beve si rimescolano acidi e percolati, oli, batteri e solventi, a dare pozioni dagli esiti imprevedibili. Bruca germogli contaminati da polveri e metalli che vengono giù dal cielo e dall’A1. Scarta al clangore improvviso di un convoglio lanciato ad alta velocità, e fugge verso un rifugio che non sa trovare e che forse non esiste più.

Il podista che percorra la ciclopedonale tra Parma e Baganzola, e che si imbatta in questo leggiadro compagno di strada, ne osserva la corsa disperata e dolorosa, più facile e leggera, certo, di quella umana così goffa e macchinosa. La sente fraterna alla sua. Nelle nostre corse solitarie pare si quereli ogni malanno del mondo, ogni vita contaminata. Nelle nostre illusorie ribellioni individuali allo stato delle cose: correre, nuotare, pedalare. Non mangiare carne, non bere latte, mangiare solo verdura bio, non mettere zucchero nel caffè. Non mangiare zucchero del tutto. Andare al parco con la mascherina, non portare il bebè fuori di casa, prendere il sole con la protezione tremila. Ma ogni sforzo individuale è velleitario e non preserverà i nostri corpi dagli effetti collaterali di questo modello di sviluppo. Un modello in cui un’opinione pubblica sonnolenta accetta, per esempio, un Parlamento che raddoppia il limite consentito di emissioni di ossidi di azoto per le auto, vergognosamente prono alle richieste dei grandi marchi del settore. Per questo, sentire la corsa del capriolo fraterna alla sua è, da parte del podista, dell’uomo, un abuso. Gli animali infatti non votano, non comprano, non scrivono e non decidono le sorti di nulla. Sopravvivono nel disastro, e forse, vi si adattano. Ma non possono trovare consolazione: non hanno neppure la facoltà, nella desolazione, di percepirne il lato romantico.