Archivio | Maggio 2016

Pulizie di primavera

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Nel disordine dei nostri garage si riflette la perdita di certezze dell’uomo contemporaneo. La macina spersonalizzante del turbocapitalismo finanziario ci ha reso soli e impotenti. Solleviamo la saracinesca e di fronte alla confusione, stratificata in lunghi anni di incuria, oscilliamo tra nipponiche tentazioni di decluttering e sogni da maschio bianco alla Walt Kowalski: trascorrere un’intera esistenza ad accumulare, sistemare, accudire attrezzi nell’autorimessa, tempio da consacrare a una Gran Torino qualsiasi. La realtà, lo sappiamo, è che non ce la faremo mai a scegliere una strada o l’altra e, generazionalmente votati al disordine, lasceremo le cose come stanno, eccezion fatta per qualche effimero intervento di maquillage.

Così, mentre lo stato sociale va in pezzi, il sistema sanitario nazionale, la scuola, la previdenza sono allo sbando, lo Statuto dei lavoratori e tutti gli avanzamenti del diritto e culturali si sbriciolano come certa carta estenuata dal tempo, noi fissiamo abbattuti la nostra vita depositarsi nel box. Latte di vernice sul cui fondo induriscono rocce sedimentarie non ancora classificate; ricambi per automobili rottamate da anni; cassette degli attrezzi stracolme di chiavi, brugole, pinze arrugginite e cacciaviti spuntati; cataste di VHS, CD, DVD ricoperte di polvere e innervate di cavi elettrici, antenne, cavi ethernet o USB; tende da campeggio, tappetini per auto, lampade, latte d’olio minerale, diverse edizioni incomplete o con volumi doppi del Baldi, del Luperini, del Ferroni, eccetera. Qui, dove tutto si accumula, tutto è senza un perché. Come le statue (africane?) di legno che qualcuno ha comprato a una fiera, come le scatole di cartone di cento traslochi mai finiti davvero.

È che non abbiamo mica tempo per pensare a tutto, oggi come oggi, ci diciamo. E come si fa? Con il lavoro, gli impegni, le code da fare alla banca o alla posta. Lasciamo  le cose ad ammucchiarsi e forse, inconsciamente, confidiamo in questo guazzabuglio come forma di previdenza complementare: quando dopo decenni di contributi versati, da ultrasettantenni, avremo bisogno di sostituire qualcosa che ci si è rotto in casa, e l’assegno dell’INPS sarà così magro da non potercelo permettere, allora scenderemo quaggiù a frugare tra la roba impolverata che non si sa mai, un bicchiere buono, una lampadina, un rotolo di scotch marrone da pacchi, salterà pur fuori.

O forse non è questione di tempo, né di altro, forse è solo pigrizia. L’indolenza che ci prende di fronte al disordine privato dei nostri oggetti è la medesima indolenza che ci induce ad accettare il disordine pubblico del presente stato delle cose, a rinunciare alla lotta, alla partecipazione. Un’indolenza comprensibile, certo, quando pare che per raggiungere ogni obiettivo, ancorché minimo, si debbano scalare montagne, quando l’impresa è impossibile. Comprensibile ma non più giustificabile, quando da difendere non ci resta oramai molto altro oltre alla dignità.