Archivio | Maggio 2013

Nati il 28 maggio

hqdefaultCammini con le spalle belle diritte, nonostante il pancione che avrà più di otto mesi, perché hai fatto il tuo dovere. Respiri l’aria che sa di pioggia, hai una fame da morsicare il primo che passa. Il corteo si è appena concluso, il comizio è in corso nella Piazza della Loggia, la gente ascolta, attenta. Ma i comizi ti hanno sempre annoiato, tutta quella retorica, quella solennità. E allora ti incammini per andare verso casa, una Leonessa dallo sguardo fiero, piuttosto affaticata, ma felice. Il tuo compagno ti vuole riparare dalla pioggia sottile, ma l’ombrello è troppo piccolo e così, da intellettualoide impedito quale è, fa quello che può, rischiando persino di ficcarti una stecca nell’occhio. Ad un tratto il botto, le urla, il sangue, la gente in fuga: c’è chi cade, chi spinge, chi piange. Un ragazzo ti urta da dietro e cadi sulle ginocchia, non si è nemmeno accorto di averti colpita, lo vedi saltare via dall’orrore a grandi balzi. Resti lì, un istante, cerchi di capire, di renderti conto, di tirare un po’ il fiato, prima di tentare di rimetterti in piedi. Ti senti afferrare da sotto le ascelle, ti senti mettere in piedi, di peso. Cominci a sistemare un passo dietro l’altro, senti che in due ti sorreggono, mentre altre tre o quattro persone ti riparano da quella massa in rotta, disperata, l’intellettualoide è ancora lì che ti regge l’ombrello, che pirla! Ti ritrovi in via San Faustino, sana e salva, ti pieghi in avanti, ti afferri le cosce, ti soffermi a guardare le chiazze di bagnato sporco sui pantaloni di tela. Tuo figlio è salvo, vedrà la luce tra qualche giorno.

Tuo figlio siamo noi. Noi, tutti, figli dei corpi offesi dalla loro bomba, noi che siamo sangue di quel sangue versato sul selciato e subito lavato via dai carabinieri, uomini di Stato così zelanti. Siamo nati il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, nella Resistenza, e abbiamo dovuto imparare alla svelta a vivere contro la loro violenza, a spenderci contro la loro fredda volontà sterminatrice. Lo abbiamo dovuto fare da soli, spesso, praticamente sempre, perché le Istituzioni hanno preferito guardare da un’altra parte, tutte. Ma ce l’abbiamo fatta, siamo qui, presenti, non ci hanno fermato le loro esplosioni, le loro minacce, le loro aggressioni. A dispetto dei loro piani di rinascita, dei loro sotterfugi, dei loro depistaggi, dei loro intrighi oscuri e maledetti, siamo cresciuti nella consapevolezza, nella testimonianza. Inoltre, purtroppo per loro, abbiamo sviluppato una memoria di ferro, che non si incrina nemmeno con l’età, che non cede il passo alla voglia di lasciare andare, perché oramai son 39 anni, perché adesso vai a sapere e chi ci capisce più.

Possono riparare in qualsiasi Giappone, o riposare in qualsiasi cimitero, questi aguzzini e i loro mandanti, ma rimangono degli sconfitti: battuti da noi che restiamo qui, umani, e annientiamo ogni giorno con il nostro amore, il nostro vivere orgoglioso, la loro vigliaccheria assassina.

Space Invaders

martiniLuca Parmitano, l’astronauta italiano che in questi giorni verrà spedito nello spazio per lavorare alla Stazione spaziale internazionale, porterà con sé lasagne, parmigiana di melanzane e tiramisù. Tra un intervento di manutenzione e l’altro, tra una passeggiata spaziale e l’altra, l’intrepido navigatore dell’infinito avrà così modo di sollazzare le proprie papille gustative, alla faccia dei colleghi russi e americani o giapponesi, selvaggi divoratori di barrette e integratori gusto prosciutto e formaggio o cioccolato e biscotto. La notizia, che ha suscitato qualche ironia sul cliché dell’italiano schiavo dei manicaretti di mamma e dei sapori di casa, mi ha riportato a un’abitudine di un vicino di casa, uno studente universitario lucano che stipa nel congelatore quintali di pane che viaggiano dal paese natio tramite complicatissime spedizioni via autobus. Vagli a spiegare che il pane lo fanno anche a Parma, che magari non è così buono, ma vuoi mettere evitarsi lo sbattimento di tutto un freezer di pagnotte ghiacciate, da resuscitare nel microonde, che poi magari non fa nemmeno bene? Lui ti risponde che, se non fosse per quel pane con la croce segnata nella crosta, si appenderebbe al gancio del lampadario. Già, è un tipo un po’ teatrale, il vicino. Comunque, niente male la scelta dei piatti di Parmitano, tutta roba compatta, a pensarci, che viene bene riscaldata: mica puoi saltarla in padella la roba, lassù in orbita, senza la cara vecchia g a 9,8 m/s2, perché ti si spiaccica tutto il mangiare sul soffitto. Sono anche pietanze che puoi fare a pezzettoni, e infilare in bocca senza eccessivi problemi: provate a succhiare dei bucatini all’amatriciana, di quelli che ti schiaffano davanti a Trastevere per cinque euro a piatto, grondanti salsa, con il problema di risucchiare dei fili che anziché piegarsi verso il basso vi fuoriescono dalla bocca disegnando le raggiere più assurde. Sentendomi superiore alle mollezze goderecce da italiani, ho pensato a cosa mi porterei io, lassù nella Stazione galattica: qualche libro, un romanzo, magari I figli della mezzanotte, un saggio, per tirarmela, tipo Cultura e imperialismo, poesia, Stigmate di Hajdari per esempio o il canzoniere di Saba, nel caso si metta davvero male e si renda necessaria una lettura da ultime ore prima di tirare le cuoia, per ricordarsi che, da qualche parte sulla Terra

[…] Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi.

Ci ho pensato per cinque minuti, in effetti, a una valigia imbottita di libri da tirarmi dietro nello Shuttle, poi ho realizzato che obiettivamente, riguadagnando, dopo una scampagnata tra gli astri, il confortevole e rassicurante abitacolo della navicella, non avrei certo voglia di immergermi nella lettura, ma gradirei volentieri un Martini dry con l’oliva. Non credo, tuttavia, che si possano assumere liquidi tramite bicchiere, sulla Stazione stellare. C’è il rischio di trovarsi a rincorrere i liquidi per l’abitacolo e di ridursi a risucchiarli per l’aria, come pesci rossi nella boccia alle prese con le scaglie di cibo. Già sarà obbligatorio l’uso di qualche tipo di maxibiberon di gomma, e un Martini senza Martini cocktail glass, non è un Martini. Così, alla disperata ricerca di qualcosa da portarmi in orbita, apro la Repubblica on line e, trovandoci dentro, tutti in un colpo, il faccione sorridente di Alemanno che addebita al derby il proprio fiasco elettorale, il faccione stantuffante di Grillo che la addebita ai giornali e il faccione benpensante di Giovanardi che parla di diritti da negare, ho pensato che potrei tirarmeli dietro, fino su alla Stazione intergalattica, e che potrei lasciarceli. Piantarli così, a parlare tra loro, tra le stelle, tanto gli astronauti stranieri che vivono là mica capiscono l’italiano e quindi, forse, li possono sopportare.

Scatole

heart_shaped_box02Sintetizzava così, un riccioluto insegnante pisano, la chiusura di ogni ciclo scolastico: “Alla fine li impacchetti e li metti via, per sempre.” Fine maggio, tempo di relazioni, di pagine che nessuno leggerà mai, destinate alla polvere di un archivio: le vituperate pesanti scartoffie sotto la cui massa l’edificio scolastico intero, a detta di molti, vacilla. Pomeriggi davanti al portatile a impaginare, ritagliare, incollare, confrontare, a ricercare informazioni assurde sugli anni scolastici passati, a scrivere come si è fatto quello che si è fatto e perché. Incombenze che, qui i colleghi mi piglieranno per matto, amo spicciare con perizia e concentrazione. Ho capito, infatti, che i miei pacchetti, quelli da confezionare con cura prima di archiviarli per sempre, sono le relazioni finali. No, non con le pizze di fine anno, non con i balli della scuola, o durante gli esami, o nella consegna di documenti di valutazione, ché quelli sono strascichi: gli alunni cresciuti li metto davvero via scrivendo le relazioni finali. Con una rivoltante mistura di burocratese e didattichese disegno scatole curiose in cui infilare un mondo: che so? Una cappelliera dove scordare un dolore, un cubo annodato di raso nel quale cacciare un mucchio di brufoli o una faccia da schiaffi, una scatola a forma di cuore per ospitare un apparecchio ortodontico e il suo contorno di lentiggini, una latta da biscotti per dare asilo ad occhi profondi venuti dal Maghreb.

Nemmeno io, fino a oggi, capivo bene perché compilare gli ultimi documenti mi desse questa sensazione di commiato, ma anche, tutto sommato, di soddisfazione, quella soddisfazione speciale che viene da un lavoro ben fatto. Qualche ora fa, però, ho avuto una rivelazione: guidavo nella campagna punteggiata di rotoballe e il ricordo di un articolo della Gazzetta dello Sport, ritagliato e archiviato per bene chissà dove, mi ha illuminato. È un’intervista a Emiliano Mondonico, realizzata subito dopo la sorta di miracolo sportivo con il quale, nel 2004, ha riportato in serie A la Fiorentina. Mentre Firenze è invasa dai caroselli, lui, il Mondo, allenatore tifoso che sostiene di fondare la sua filosofia di gioco difensivista su imprecisate filosofie orientali, mago incompreso da città e società che di lì a poco gli avrebbero dato il benservito, festeggia la promozione nella sua casa nella campagna lombarda. Solo, sorseggia vino rosso e mastica salame fatto a mano, tagliato a pezzi grossi, presumo al fresco di un portico.

Quello che ami, spesso, è ingrato. Ecco, per questo ci sono somme che è meglio tirare da soli, ci sono soddisfazioni che si gustano nell’intimità, per esempio pigiando i tasti di un computer mentre la puntina del giradischi graffia un disco di Bob Dylan. Scrivendo di programmi svolti e argomenti tralasciati, sorseggiando un rosè molle del Lago e spiluccando acciughe di Monterosso è più facile dare un addio e, senza esagerare, ogni tanto promuoversi per quanto fatto, soppesando i risultati ottenuti. Soli, non perché si sia presuntuosi, ma perché non sempre, in fondo, gli altri possono capire.

Ricadute

meduse_1La descrizione del mondo naturale è impresa oltremodo ardua. Il naturalista somiglia, nella mia idea, a Carlo Emilio Gadda: una specie stramba di implacabile classificatore che si prova a ficcare tutto il mondo dentro una cassettiera gigantesca, afflitto dal problema che molti cassetti non si vogliono chiudere e che altri, proprio quando sembrano sistemati, riesplodono fuori perché troppo carichi. È lì, il nostro naturalista, che spinge con un ginocchio i miceti al loro posto, mentre con il palmo della sinistra aggiusta il comparto dove ha sistemato le regole che definiscono i rituali di accoppiamento tra meduse. Davvero un lavoraccio, tanto improbo che parrebbe una battaglia persa prima ancora di essere combattuta: la natura inventa misteri ingarbugliati per beffarsi dell’uomo, della sua stolidità e limitatezza. Per esempio: esiste qualcuno che può spiegare se l’acqua faccia male o bene alle forme di vita vegetale? I contadini, infatti, si disperano per le piogge di questa primavera, che hanno disastrato le semine e segnato in maniera ineluttabile l’annata agricola. Tuttavia, a guardarla dalla città, tutta quest’acqua sembra capace di rendere incredibilmente fertile qualunque grammo di terra. Se, indossati un paio di stivaloni in gomma alti almeno al ginocchio, vi fate un giro per i borghi del centro trasformati in canali o vi abbandonate al romanticismo di un’escursione in barca a remi nel laghetto che fu piazza Garibaldi, noterete che la vegetazione cittadina ha assunto incredibili dimensioni e vigore. Erbacce alte fin oltre un metro scappano da ogni crepa dell’asfalto, i rampicanti avanzano a vista d’occhio sulle pareti inzuppate, i tigli buttano rami nuovi ogni giorno, mentre le radici si gonfiano e staccano il cemento dei marciapiedi a grosse scaglie. Sul mio balcone il coccio dei vasi, il ferro della ringhiera, il cotto del pavimento sono ormai invisibili, ricoperti da frasche annodate e ribelli che ricadono così abbondanti che l’impressione è di stare in una foresta. Il cactus sul tavolino, grande quanto un ditale poche settimane fa, ha ora raggiunto le ragguardevoli dimensioni di una mazza da baseball. L’acqua ha tanto cambiato il volto della città che sembra di essere in un mondo, come scrisse Michele Mari per condensare in una formula gli ambienti salgariani, dove tutto è iperbolico.

L’acqua, dunque, è un bene o un male per le forme di vita vegetale? La risposta è boh!

Tuttavia, se è difficile quantificare e descrivere la ricaduta delle precipitazioni sulla flora padana, è però vero che le scienze hanno fatto tali progressi da essere in grado di fornire risposte soddisfacenti per innumerevoli altre questioni.

Ci sono invece grosse difficoltà nell’affrontare problemi per la cui soluzione la scienza non può offrire supporto. Un esempio, per restare nel campo delle ricadute di un dato elemento in un certo contesto: l’Assessore alla Cultura del Comune ha deciso di sopprimere il Parmapoesia Festival, una delle più importanti manifestazioni culturali della città, poiché non è chiara la ricaduta della rassegna, non sono cioè stati quantificati i benefici complessivi eventualmente apportati alla città. Il ricordo che ho delle otto precedenti edizioni del Festival è fatto di serate sempre partecipate, dibattiti, letture, grandissimi protagonisti. Suppongo quindi che la poesia abbia portato in dote alla città qualche prenotazione in albergo, qualche cena al ristorante, oltre ai tagliandi d’ingresso, ai cocktail e alle vendite dei volumi. Sempre che queste siano le ricadute che l’assessore vorrebbe quantificate, perché altri effetti della poesia, che riguardano direttamente la qualità della vita di ciascun cittadino, sono proprio difficili da misurare. In ogni caso la decisione è presa: niente più poeti in città, dunque, a disegnare mondi possibili nelle sere tiepide di giugno. Niente poesia per questo centro che boccheggia sotto una cappa pesante di grigio rigore, un’austerità soffocante e ottusa che, sebbene sia contrappasso adeguato alla folle, gaudente e piuttosto idiota grandeur provinciale della precedente amministrazione, rischia di segnare per sempre Parma. Orfani dei poeti, caro Assessore alle ricadute, interrogheremo il cielo, in quelle sere di giugno. Interrogheremo quel cielo dove le stelle sono cancellate dal fumo, la cui ricaduta è invece purtroppo ben prevedibile, che lento sale da Nord, dal lungo camino del nuovo inceneritore a Cinque Stelle.

Furbizia orientale

SaidSisScriveva Edward Said, nel 1978, in Orientalismo:

Sebbene infatti non sia più possibile venir presi sul serio dal pubblico dotto (e neanche da quello non dotto) disquisendo di “mentalità negra” o di “psicologia dell’ebreo”, si può ancora esserlo pretendendo di indagare intorno alla “mentalità musulmana” o al “carattere degli arabi”.

Trentacinque anni dopo, le sue parole sono ancora attuali, dal momento che, in un’aula di giustizia italiana, si attribuiscono alle origini orientali il cinismo e la spregiudicatezza di una giovane marocchina. Durante la propria requisitoria al “Processo Ruby” infatti, il PM Ilda Boccassini pronuncia la seguente frase:

per assurdo, in questa situazione, la minore extracomunitaria, persona, lo ripeto, intelligente, furba, di quella furbizia proprio orientale, delle sue origini, sfrutta… riesce a sfruttare il proprio essere extracomunitaria.

Un accostamento discutibile, leggiamo sull’edizione online di Repubblica; una semplice gaffe per il sito della Stampa e del Corriere. In realtà è molto di più, è una spia preoccupante, un segnale di come nella nostra società il pregiudizio sia profondamente radicato. Fa sorridere, se possibile, la replica berlusconiana alla richiesta di sei anni di carcere espressa dall’accusa, sintetizzata sulla home del Fatto Quotidiano con un: Berlusconi: “Pregiudizio e odio nella richiesta: povera Italia.” “Già, proprio così!” Verrebbe infatti da dire. La replica sarebbe perfettamente condivisibile, se non fosse che Berlusconi vede, ovviamente a torto, pregiudizio nei suoi confronti, e non, come è evidente, nei riguardi del mondo arabo, dell’Oriente. Le considerazioni sul carattere ambiguo, sulla doppiezza e la furbizia dei musulmani servono a cementare un terreno comune, uno spazio condiviso, l’Occidente, in cui stiamo tutti noi, insieme a Berlusconi, ben distante da un qualcosa di indiscutibilmente altro in cui troviamo mentalità aberranti, sopraffazione, grigiore, oppressione. Prosegue infatti così, Boccassini, lanciandosi in considerazioni davvero piuttosto imbarazzanti:

sfrutta il fatto di essere straniera, e di essere figlia di musulmani, cioè in un contesto sociale, in una realtà dove purtroppo, in Italia, dove l’integrazione non riesce ancora ad inglobare due culture diverse e quindi assistiamo a fatti di una gravità inaudita rispetto a persone, a giovani, a ragazzi che vogliono non essere soffocati da una cultura di origine diversa da quella occidentale. Ebbene, invece, la nostra minore riesce a sfruttare questa situazione.

La cultura non occidentale, dunque, soffoca ed è causa di fatti di gravità inaudita. Quella occidentale, invece, non riesce a svincolarsi dallo stereotipo, dal razzismo. Non riesce a guardarsi allo specchio con onestà e affoga nelle proprie colpe, nelle proprie miserie, nelle affermazioni strampalate in un’aula di tribunale, sotto i buuh e le banane lanciate dagli spalti di uno stadio, nelle “cacce” al negro o all’ebreo, allo zingaro o al musulmano sempre aperte, nello squallore dei centri di permanenza temporanea e in molti altri luoghi oscuri come certe questure, dove puoi godere di una particolare considerazione se qualcuno chiama e ti spaccia per la nipote del presidente egiziano.

Sogno di una notte di mezza primavera

PaperinoSi avvicina di soppiatto, guardandosi intorno con aria circospetta, mi punta con quel suo muso da roditore, mi scruta. Voglio scansare quegli occhietti sospettosi, mi concentro sulle perle di sudore che gli si impigliano nella barba del giorno prima. “Prego, desidera?” Lo anticipo. Soffia tra gli incisivi, mentre sceglie le parole: “Buongiorno, sono l’agente Frugalis, piacere!” Allunga una zampa sudaticcia dal dorso peloso che stringo senza entusiasmo: “Agente di polizia?” “Uh! No, no… sono al servizio della nuova agenzia governativa Onorari e stipendi Verranno Ridotti Adesso, in breve: OVRA.” “Un’agenzia che ha come nome uno slogan? Di cosa si occupa?” Cerco di capire interrogando Frugalis. Lui nicchia, si ispeziona distrattamente l’orecchio con il mignolo, poi rimira il cerume accumulato sotto l’unghia: “Beh, lo slogan dà chiarezza, è immediato… comunque, si tratta di un’agenzia di nuova concezione, incaricata dal governo di provvedere al controllo della condotta dei cittadini in merito al problema delle retribuzioni.” Fatico a capire: “Va bene, ma di che cosa vi occupate nella pratica? E poi, cosa vuole da me? Perché mi ferma qui, proprio oggi, mentre porto a spasso il cane?” Sibila di nuovo tra i denti da castoro, soffiando fuori goccioline di saliva collosa: “Scusi, ma lei non segue le notizie? Non vede che in Italia tutti si rincorrono nell’autoridursi volontariamente lo stipendio? Politici, ministri… non desidera seguire il loro nobile esempio? La nostra Agenzia si occupa, diciamo, di controllare che i nostri insigni uomini politici non seminino nel vento e che, insomma, i cittadini di buona volontà raccolgano il testimone e si taglino le retribuzioni. L’adesione al taglio, se così si può dire, è su base strettamente volontaria, ça va sans dire…” Non capisco cosa voglia da me quello strano tipo, guardo la vegetazione del parco straordinariamente rigogliosa in virtù delle piogge torrenziali di questa primavera malata e giro sui tacchi per allontanarmi. Repentino mi afferra per la giacca: “Dove pensa di andare? Ho qui con me il modello, lei dovrebbe rinunciare a un quarto del suo stipendio da insegnante! Firmi qua, non faccia storie! Via, in fondo, io, lei, noi… siamo dei privilegiati…” “Questa, poi! Parli per lei e per i suoi colleghi dell’OVRA, io i soldi me li guadagno eccome!” Lui perde le staffe, il grugno si fa paonazzo: “Tu, brutto cane rognoso! Maledetto parassita! Canaglia impestata! Tu adesso ti riduci volontariamente lo stipendio, hai capito, altrimenti l’Agenzia sbatte il tuo nome in prima pagina, ti mette sul sito con la foto e tutto, tu che non rinunci ai tuoi benefit, tu che succhi linfa vitale a questo glorioso paese! I politici hanno dato il sangue, governo e opposizione, per il risanamento, non solo economico ma anche, direi, morale del paese!”

Mi sveglio in un bagno di sudore, che incubo! È tardi, tocca correre al lavoro. Guido assonnato, la statale è nastro adesivo che galleggia sulla pianura gonfia di piogge. Gli automobilisti picchiano i clacson sempre più rabbiosi mentre il notiziario alla radio gracchia la solita solfa: questo che si riduce quello e quell’altro che rinuncia a questo, inoltre tutti si pagano tutto. Dopo il radiogiornale c’è un programma che trasmette telefonate di cittadini indignati. Persone che chiamano in radio per dire che è uno schifo, che i politici fanno vomitare, ma anche che gli statali sono pagati troppo, che gli operai Fiat sono lazzaroni e hanno un sacco di tutele. Insomma, sembra che la lotta a privilegi e ruberie assuma sempre più la fisionomia di un diversivo per far perdere di vista l’idea che il lavoro vada adeguatamente retribuito .

Gli studenti migliori

imageGli studenti migliori non sempre sono presenti in classe: a volte la loro testa vola fuori dalle finestre e guarda il mondo dall’alto, scruta i tetti, le strade, i cavalcavia e i lavori in corso, il fiume che da lassù è una lama d’argento e la pianura così grassa di concime che sembra traboccare su se stessa. La testa degli studenti migliori si gira tutto il circondario per cercare un nonno alla guida di un trattore o la mamma che si affanna nel parcheggio dell’Ipercoop per ficcare la spesa nel bagagliaio della Punto. Capita che quando li chiami, questi studenti migliori, li becchi che non sono al segno e allora ti incavoli e magari, per fare un po’ di scena, dai una manata alla cattedra: “Che fai? Dormi?”.

Gli studenti migliori non sono sempre bravi a fare le cose: c’è quello che non impara a leggere, quello che non sa le tabelline, quello che scrive dalla parte sbagliata del foglio protocollo. Quello che ci mette il doppio del tempo, perché fa tutto per bene e, prima di consegnare, stira pure il foglio con l’avambraccio, per tirare via orecchie invisibili.

Alcuni degli studenti migliori, a volte, a quindici anni non riescono neppure a tenere in mano la matita e ti guardano con occhi grandi così, per chiederti, per essere rassicurati: “Non fa niente, vero prof? Mi vuole bene lo stesso?” Altri degli studenti migliori non solo non sanno fare “le cose di scuola”, ma non possono nemmeno comunicare il loro amore a nessuno. Altri ancora non imparano a stare seduti, a volte sembrano proprio fuori di testa, quando urlano la loro furia e il loro dolore e fanno cadere i libri, le seggiole, e piangono e ridono nello stesso tempo. Ti fanno diventare matto, ma mai come la collega di religione che ti viene a dire con aria saputa: “Vedi che il demonio esiste?”

Ci sono poi studenti, anche questi tra i migliori, che in un tema buttano lì un pensiero, un’idea di quelle che ti fanno raddrizzare la schiena mentre sei lì, scorato, a correggere: “Cavolo, allora qualche cosa ho insegnato!”

Ci sono studenti migliori che non hanno alcun merito, ma sono migliori perché non hanno nessuno, a casa, che li ascolti cinque minuti. Magari sono soli in questa terra infame, magari no, ma è peggio che se lo fossero. E allora ti avvicinano in corridoio, ti allungano i loro scarabocchi su pagine di diario strappate, ti fanno sentire come tormentano bene la chitarra, si pavoneggiano della propria perizia in qualche violentissimo giochino elettronico.

Le scuole migliori sono zeppe di questi studenti migliori, che con il loro arrancare disegnano il bisogno di un mondo più bello, pensato per loro.

L’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, più brevemente INVALSI, da domani, come ogni anno, sottoporrà dei maxi-quizzoni agli studenti della scuola primaria e secondaria, al fine di misurare oggettivamente l’efficienza delle scuole. Gli studenti migliori, che di solito non sono molto abili nei test, primeggiano infatti in altre specialità, rischieranno di far fare una figuraccia alle loro scuole, nonostante queste ultime siano, s’è detto, le scuole migliori. Chissà cosa diranno con il passare del tempo qui in giro, dopo figuracce nei quizzoni rinnovate anno dopo anno, delle scuole migliori: che sono ricolme di matti, di svalvolati, di storti, di svitati, di indemoniati, di baluba, di zingari. Diranno che è meglio starne alla larga, da queste scuole, che è meglio non mandarci i propri figli, che è meglio mandarli alla scuola in centro, alla scuola privata, alla scuola efficiente. Beh, si accomodino!

Piazzale Mandela

dado_5Oggi, eventualità preziosa qui in pianura, l’aria è fine e arrotola leggera polvere e cartacce sul porfido di Piazzale Picelli. Da una parte ci sono quattro donne dell’Est, spalle robuste e visi segnati, che hanno portato i rispettivi vecchi dell’Ovest fuori a prendere aria: quattro carrozzine allineate in faccia all’ultimo sole, quattro corpi messi lì a intiepidire nel torpore del pomeriggio. Le badanti chiacchierano sommesse e guardano oltre la strada verso i tavolini di un caffè. Da una panchina appena più in là, nascoste sotto leggeri foulard rosso e oro, tre donne controllano distrattamente un groviglio di bambini intrecciati in uno strano gioco di lotta, proprio davanti al cancello d’ingresso della scuola elementare. Bisbigliano di speranze e preoccupazioni con parole arabe, sussurrano piano senza guardarsi in viso, senza voltarsi mai di fianco. Sul lato opposto della piazza, all’ombra della chiesa di Santa Maria del Quartiere, alcuni operai senegalesi hanno raggruppato delle sedute, disponendole a cerchio. Bevono birra forte con i piedi infilati nelle scarpe antinfortunistiche e allungati sui sedili o sul selciato. Uno si alza e prorompe in un fiume di parole, quasi urla. Stringe nel pugno una latta da mezzo litro, con l’altra mano gesticola. Finisce il sermone e si lascia andare di peso su una pancaccia libera. Qualche compagno fa cenni di approvazione.

I tre gruppi stanno il più distante possibile tra loro e si ignorano, sembra di percepire persino una punta di ostilità. Messi così formano i vertici di un triangolo equilatero. Se ci fosse un quarto gruppo, si disporrebbero a quadrato; se ne sopraggiungesse un quinto avremmo un pentagono, o una disposizione tipo il cinque dei dadi. Come succede in ascensore, che ci si riaccomoda ogni volta che sale un passeggero, in automatico, dividendo equamente lo spazio senza nemmeno guardarsi, spesso guardando addirittura per terra. Al centro del triangolo, c’è il monumento a Guido Picelli, un busto in bronzo che guarda verso i borghi con aria appena sorpresa.

Cosa ne pensi, vecchio eroe, di questa gente divisa, di questa storia sospesa? Che badanti e operai non facciano amicizia non stupisce, hanno orizzonti troppo distanti, ma perché mal sopportarsi? Non hai risposte? Ah, ho capito! Dici che non sei mai stato un tipo da larghe intese, tu, che non lo sai mica come si faccia ad andare tutti d’accordo. Ma cosa c’entra, con questo discorso, la politica? Sei il solito comunista fissato. Dici anche che sei nato nel secolo XIX, che non sei pratico di questo mondo moderno. Hai le tue ragioni, certo. Sei caduto in Spagna nel ’37, che ne sai tu della società multiculturale, del melting pot?

Sulla prima del giornale appuntata alla bacheca gialla dell’edicola ci sono alcuni fotogrammi a colori, tratti da un video che mostra un Nelson Mandela stanco e silenzioso, scavato dalla sofferenza. È un simbolo, a essere al tramonto, o un’idea?