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Pulizie di primavera

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Nel disordine dei nostri garage si riflette la perdita di certezze dell’uomo contemporaneo. La macina spersonalizzante del turbocapitalismo finanziario ci ha reso soli e impotenti. Solleviamo la saracinesca e di fronte alla confusione, stratificata in lunghi anni di incuria, oscilliamo tra nipponiche tentazioni di decluttering e sogni da maschio bianco alla Walt Kowalski: trascorrere un’intera esistenza ad accumulare, sistemare, accudire attrezzi nell’autorimessa, tempio da consacrare a una Gran Torino qualsiasi. La realtà, lo sappiamo, è che non ce la faremo mai a scegliere una strada o l’altra e, generazionalmente votati al disordine, lasceremo le cose come stanno, eccezion fatta per qualche effimero intervento di maquillage.

Così, mentre lo stato sociale va in pezzi, il sistema sanitario nazionale, la scuola, la previdenza sono allo sbando, lo Statuto dei lavoratori e tutti gli avanzamenti del diritto e culturali si sbriciolano come certa carta estenuata dal tempo, noi fissiamo abbattuti la nostra vita depositarsi nel box. Latte di vernice sul cui fondo induriscono rocce sedimentarie non ancora classificate; ricambi per automobili rottamate da anni; cassette degli attrezzi stracolme di chiavi, brugole, pinze arrugginite e cacciaviti spuntati; cataste di VHS, CD, DVD ricoperte di polvere e innervate di cavi elettrici, antenne, cavi ethernet o USB; tende da campeggio, tappetini per auto, lampade, latte d’olio minerale, diverse edizioni incomplete o con volumi doppi del Baldi, del Luperini, del Ferroni, eccetera. Qui, dove tutto si accumula, tutto è senza un perché. Come le statue (africane?) di legno che qualcuno ha comprato a una fiera, come le scatole di cartone di cento traslochi mai finiti davvero.

È che non abbiamo mica tempo per pensare a tutto, oggi come oggi, ci diciamo. E come si fa? Con il lavoro, gli impegni, le code da fare alla banca o alla posta. Lasciamo  le cose ad ammucchiarsi e forse, inconsciamente, confidiamo in questo guazzabuglio come forma di previdenza complementare: quando dopo decenni di contributi versati, da ultrasettantenni, avremo bisogno di sostituire qualcosa che ci si è rotto in casa, e l’assegno dell’INPS sarà così magro da non potercelo permettere, allora scenderemo quaggiù a frugare tra la roba impolverata che non si sa mai, un bicchiere buono, una lampadina, un rotolo di scotch marrone da pacchi, salterà pur fuori.

O forse non è questione di tempo, né di altro, forse è solo pigrizia. L’indolenza che ci prende di fronte al disordine privato dei nostri oggetti è la medesima indolenza che ci induce ad accettare il disordine pubblico del presente stato delle cose, a rinunciare alla lotta, alla partecipazione. Un’indolenza comprensibile, certo, quando pare che per raggiungere ogni obiettivo, ancorché minimo, si debbano scalare montagne, quando l’impresa è impossibile. Comprensibile ma non più giustificabile, quando da difendere non ci resta oramai molto altro oltre alla dignità.

Da Mayor/Il Sindaco

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Qui, tra i muri graffiati delle case del Quartiere, Marino, il pensionato che abita sopra di me, è così popolare che tutti lo chiamano Il Sindaco. Assomiglia, in effetti, all’attaccabottoni alcolizzato di Fa’ la cosa giusta, il capolavoro di Spike Lee, soprannominato appunto Da Mayor. In comune hanno alcune passioni, come il gusto per il Tavernello succhiato direttamente da un foro nel cartone e per la conversazione molesta, ma bisogna ammettere che il primo cittadino nostrano è un po’ meno sfaccendato del Mayor. Per anni macellaio, il Sindaco ha chiuso bottega quando tra le clienti più affezionate è iniziata a circolare la voce che la sua specialità, costate vermiglie altre tre dita, non fossero di origine bovina, ma prodotte con una stampante 3D in un capannone di Orzinuovi. Ma decisiva è stata anche l’apertura di Esselunga, che gli ha fatto una concorrenza spietata a colpi di supersconti e cassieri abbonzati e palestrati. Ormai in pensione, si dedica a una lunga serie di occupazioni che in Italia restano tutt’oggi popolari, tipo passare avanti agli altri nelle interminabili code in posta, gettare cartacce e mozziconi nelle aree verdi e molestare incaute passeggiatrici solitarie, magari con il vecchio numero di aprirsi improvvisamente l’impermeabile rivelando una pingue irsuta nudità.
A poco a poco, dal rappresentare per noi vicini semplicemente un incontro saltuario, e non sempre gradito, Il Sindaco è riuscito con le sue imprese a intrufolarsi nelle vite di tutti noi: non passa giorno, giuro, che non ci imbattiamo in qualcosa di quantomeno evocativo della sua esistenza. Un’esperienza da mettere alla prova la sanità mentale di chiunque. A dire la verità, però, tutta questa popolarità non se l’è cercata da sé, una bella colpa ce l’hanno i media. Sono stati gli anziani, colonna portante della voce più potente del Quartiere, Radioscarpa, a fare sì che il suo nome assumesse per noi tutti l’ossessività del mantra: non ti dico cos’ha fatto Marino… Hai sentito del Sindaco? Che schifoso! L’ha fatta di nuovo fuori dal vaso. Un contributo importante è venuto anche dal curato, che ha interrotto l’omelia domenicale per puntarlo con il dito e domandargli: “Oh, ma te, chi diavolo ti ha invitato?”
Ma per tornare a noi qui del Quartiere, diciamo che i mille vizietti del Sindaco sono stati dapprima un diversivo, poi sono divenuti un fastidio, quindi un problema, poi una maledizione. Infine, gradualmente, abbiamo iniziato ad apprezzarne un imprevisto potenziale positivo per noi, che potremmo definire come una specie di funzione autoassolutoria del linciaggio. C’è sempre lui, peggio di noi. Teniamocelo sempre bene fisso in mente, Il Sindaco e che il suo nome circoli incessante, rimbalzi impazzito di bocca in bocca. Così che possiamo starcene belli tranquilli e fare tutto quello che ci passa in mente.
Oggi, vedendo una vecchietta attraversare sulle strisce, le ho inchiodato a un centimetro, sono uscito con tutto il torso dal finestrino dell’auto e le ho urlato: “Oh vecchia rimbambita! E levati dalle palle!” Alla mia compagna che mi guardava con una punta di sorpresa ho opposto: “Ma hai sentito che ieri, in chiesa, Marino ha ruttato dopo aver inghiottito l’ostia?” “Ah, ah! Che ridere! E non era neanche invitato. È proprio un balordo!” Ha ribattuto lei approfittando della frenata per svuotare il portacicche stracolmo sul marciapiedi. Sono ripartito con una sgommata.

Cronache da sotto l’assedio

trifidi2Ma quanto è rigoglioso il verde in questa città? Sarà che acqua non ne manca e che il sole ancora la bacia, benché filtrato da nebbie di fumi mefitici. La vegetazione, in questa stagione, strappa centimetri al cemento un po’ ovunque. Macchia i viali neoclassici del Parco Ducale, guadagna sull’asfalto debordando dai fossi, lungo le strade che sonnecchiano dove la periferia trascolora in campagna. Persino qui, nel Quartiere, il prodigio della vita vegetale si afferma. Complici le politiche comunali di austerità, la manutenzione del verde è praticamente inesistente. Ciuffi di erbe coriacee spaccano i marciapiedi e crepano i muretti. I tigli, poi, crescono incontrollati. Assediano le finestre e i balconi delle case anni Cinquanta color pastello. Allungano i loro tentacoli con velocità sorprendente, guadagnando centimetri ogni giorno. I cittadini, preoccupati, si difendono come possono da quella che si configura come una vera e propria invasione: la professoressa Tarasconi, ad esempio, ci dà in modo compulsivo di aspirapolvere, ossessionata com’è da pollini e insetti che in spessi strati si depositano su davanzali e terrazzi, finendo per penetrarle in casa. Così facendo trascura i rami, che mostrano ormai di volerle sfondare i vetri della portefinestra. Greco, campagnolo inurbato, ha risfoderato la roncola dei giorni migliori. Mena colpi decisi e rabbiosi per liberare i suoi spazi. La pioggia di rami prodotta si schianta sulle auto posteggiate nella via. L’ira del vicinato non s’è fatta attendere e nella cassetta della posta di Greco è stata recapitata una lettera anonima, scritta in lettere grandi ritagliate dai giornali: “Tu hai la roncola, io la motosega”. La signora Gallardo, da Lima, si affida alla Vergine di Guadalupe che, a starla a sentire, apparirebbe tra i rami di fronte civico 12, luminosa e trionfante proprio sopra un bel nido di cornacchia. Davanti alla visione, cade in ginocchio con un tonfo, prega e si segna, mentre la famiglia di uccelli le gironzola per casa, le fruga nella dispensa e si diverte a provare i suoi abiti fumando Lucky Strike infilate in lunghi bocchini. Fenomeno probabilmente non riconducibile alla mancata manutenzione del verde, quello di ritrovarsi ovunque assediati da grossi uccellacci che hanno soppiantato gli uccellini di un tempo. Andrebbe affrontato, certo, con politiche ambientali mirate. Ma vista la totale immobilità delle autorità, Matteo Salvi, il tossico del terzo, ha giurato lotta senza quartiere ai volatili invasori, dopo che l’intrusione di una gazza svolazzante in salotto gli ha sparpagliato cristalli e polverine per tutto l’appartamento. Finanziato da Speranza, il vecchio gobbo e macilento dell’ultimo, prestatore di denari a interesse, ha acquistato una motosega a benzina. Lo si vede oltre le finestre spalancate correre per casa in mutande, in preda a potenti allucinogeni, impugnando a due mani sopra la testa una grossa Vigor , a caccia di pennuti veri o immaginari. È qualche giorno che l’anziana madre di Matteo non fa il consueto giro di compere mattutine per le botteghe del Quartiere.
Insomma, qui si resiste, ciascuno come può, ogni giorno, all’assedio di una realtà sempre più aggressiva. Ed è difficile criticare le scelte di ciascuno, anche se non condivisibili. Si resiste qui come ovunque, all’alluvione di debiti, tasse e bollette. All’invasione di furbetti, trafficoni, slot machine e Compro Oro. Al diluvio di mancanze, malfunzionamenti e disservizi. Alla sfilata di facce di bronzo dalla parlantina sciolta e senza risposte, sulla scena tanto affollata della Pubblica Incuria.

 

Spezzo il gessetto

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Dice mio padre che correre in campagna fa male: “Chissà che cosa spruzzano, gli agricoltori, nei campi. Meglio che stai qui, in città, ad allenarti.” Forse ha ragione e, a conti fatti, concimi chimici e antiparassitari avvelenano l’aria più delle file di auto. Molto più probabilmente è la diffidenza innata di chi è venuto su nei vicoli del Carmine per tutto ciò che non è grigio ma verde. In ogni caso, caro Matteo, in questi giorni in cui tu riformi la scuola, le geometrie sghembe delle strade che tagliano basse tra i campi mi aiutano a riflettere. Così, nel tardo pomeriggio, con la terra che scappava via sotto le Asics a ricordarmi che né io né te contiamo nulla in quest’universo, ho ripensato serenamente alla tua letterina e al tuo videoclip con la lavagna. Mi dici che dobbiamo discutere, ci dobbiamo confrontare, che le chiusure e i NO non portano da nessuna parte. Che è bene che troviamo un accordo.
Mi racconti che, per esempio, potrei non storcere così il naso davanti all’introduzione della filosofia del capo e del capetto nel sistema formativo. Che la collegialità paralizza la scuola, così è bene che per prendere decisioni efficaci ci sia una figura dirigenziale con le mani meno legate, che si assuma in prima persona le responsabilità. Potrei venirti incontro, come mi chiedi, e accettare che il capo abbia più poteri. La democrazia del resto non vive un buon momento nel nostro Paese, perde terreno in ogni settore, dalla politica al lavoro, perché non nella scuola o addirittura nella famiglia, con un ritorno in pompa magna della figura del pater familias plenipotenziario su moglie e figli. Democrazia, uno scherzo strampalato uscito dalla guerra mondiale, una breve fiammata, scriveranno i libri di storia. Potrei rassegnarmi, venirti incontro.
Ma come, mi dici poi, ti fanno schifo i soldi dei privati alle scuole autonome? Rifiuti i contributi raccolti con il cinque per mille? Non ti piacerebbe che il tuo Istituto avesse fondi da investire? Quante storie! Se poi magari ti ritrovi un marchio in aula fai finta di non vederlo, no? Pecunia non olet. Non ti piacerebbero gli sghei che ti darei in più come premio per il merito? Mica siete tutti uguali. Chi lavora di più, guadagna di più. Non illuderti, caro Matteo, non mi convincerai mai, così come non mi convincerai che autoritarismo sia meglio di democrazia. Però potrei venirti incontro e non essere così rigido. Potrei chiedere ai miei studenti dei corsi serali di versare il loro cinque per mille di disoccupati alla scuola, in aggiunta al “contributo volontario” di centocinquanta euro che già pagano obbligatoriamente. Magari, tra tutti, ci salta fuori uno Scaldatutto per le sere d’inverno. Potrei entrare in classe con la toppa di Ronnie McDonald cucita su un cappellino da baseball, perché no? E poi chiedere a uno qualunque dei miei alunni del diurno di parlare molto bene, ad alta voce, di me. Magari quando un collega del comitato di valutazione è a portata d’orecchi.
Potrei fare tante altre cose, per venirti incontro. Accettare che la tua riforma se ne sbatta dell’integrazione scolastica, della disabilità, di tutti i ragazzi più belli e soli, sarebbe la cosa più dura. Ma potrei fare anche questo.
Potrei farlo perché non ho certezze in tasca e, come dici tu, magari su qualcosa mi sbaglio. Potrei cedere su qualcosa, accettare il confronto, sperare in qualche modifica, anziché rigettare in toto il progetto della Buona scuola. Potrei farlo, ma non lo faccio. Non cedo, non mi muovo di un millimetro. Ti spiego perché. Tu hai gettato sul piatto della bilancia le centomila assunzioni di docenti precari. Hai detto: niente riforma, niente assunzioni. Non si possono separare le assunzioni dall’approvazione della Buona scuola. Perché per assumere delle persone serve un motivo, cioè la riforma. Altrimenti si tratterebbe di assumere centomila insegnanti senza ragione, in pratica la scuola verrebbe utilizzata come un ammortizzatore sociale.
Hai detto così, e hai mentito sapendo di mentire, perché tutti i futuri assunti lavorano già nella scuola, quindi i posti di lavoro per loro ci sono già, non vengono creati dalla Buona scuola. Se i precari venissero assunti, non si tratterebbe di inventare cattedre inesistenti, ma semplicemente di garantire la dignità di un contratto a tempo indeterminato a chi ha anni di incertezza sulle spalle. La dignità di poter accendere un mutuo, di accudire i figli o un genitore malato senza chiedere l’elemosina. In pratica, Matteo, mi hai ricattato. Non giriamoci intorno: io ti devo venire incontro, altrimenti tu non assumi la mia compagna, gli amici, i colleghi, gente che lavora e si sbatte come e più di me, ma che non ha la fortuna di un contratto stabile. Il ricatto segna con il marchio dell’infamia chi l’ordisce e chi lo sostiene, chi lo approva. Ecco il motivo per cui lo rigetto.
Sei spigliato, sei brillante. Sorridi davanti alla tua lavagna ardesiana e mi punti un gessetto alla tempia.
Io spezzo il gessetto.

Non ci avevo mica pensato

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Le murate poderose del traghetto Minoan si fanno un baffo delle intemperanze del Canale d’Otranto. La nave avanza diritta, non si avverte rollio né beccheggio, solo la vibrazione implacabile dei motori. Calma piatta, insomma, non fosse per la violenza del vento, che dà l’impressione di poterti levar via dal ponte per scaraventarti in mare in un baleno. Due figure solitarie fissano le onde nere là sotto infrangersi contro l’acciaio dello scafo. Fisico pesante da camionisti, rughe profonde sulla fronte, quattro capelli strapazzati dai turbini. Florian pinza una MS tra pollice e indice e con le altre fa una coppa a proteggere la brace. Sergio s’affanna a distendere i lembi disobbedienti di un poncho impermeabile in plastica azzurrina. “Che ti salta in mente di infilarti in quell’affare? Non vedi, si gonfia come una vela!” “Così mi riparo dall’umidità. Sennò mi escono fuori i dolori. Certo che c’è proprio mare grosso, eh?” Florian getta la cicca tra i flutti con uno scatto dell’indice, sbuffa il fumo dal naso: “È così sempre nel Canale, qui i due mari si incontrano e fanno a botte. Anzi, questo giro è più tranquillo di altri.” Sergio lo guarda in tralice, scettico, lo apostrofa con sarcasmo: “Ma piantala lì di fare il lupo di mare Albània, cosa ne sai tu? È la prima volta che facciamo questa tratta.” Il fumatore si volta, un sorriso accennato solamente: “Torniamo dentro, su, che sento freddo.” Si siedono in un bar del ponte di mezzo, tra i pochi turisti ancora insonni. Guardano oltre un vetro la sala giochi dove un paio di disperati si ammazzano di slot, Stravecchio e solitudine. “Lo faccio tutti gli anni, questo canale. Lo attraverso ogni volta che torno a Durazzo, in Albania. Non è la prima volta che prendo un traghetto sull’Adriatico; anche se è la prima che facciamo una linea dalla Grecia all’Italia per l’azienda, questo sì. Però il canale d’Otranto lo conosco bene, io.” “Certo, che scemo. Non ci avevo mica pensato che passi di qui per andare in Albania, e sì che lo so bene dov’è l’Albania. Ormai siete più voi albanesi che italiani quelli con cui lavoro, lo so bene dov’è l’Albania.” “Qui, i due mari fanno a botte. Sempre onde alte, correnti, vento teso. L’ho fatto anche in gommone, quattro volte, negli anni Novanta.” Sergio strabuzza gli occhi: “In gommone? Come in gommone?” “In gommone. Non c’era altro modo, allora, per venire di qua in Italia. Non lo sapevi?” “Certo, che lo sapevo. Ma non ci avevo mica pensato che potessi davvero essere arrivato in gommone, proprio tu.” “Stavamo tutti in piedi, in cinquanta, sessanta, non lo so. Tutti ritti come asparagi, su quel gommone. Un ragazzino reggeva il timone con una mano, il kalashnikov con l’altra: sapeva assecondare la rabbia delle onde, procedendo a zig-zag per ore e ore. Nient’altro. Era addestrato solo per quello. I trafficanti mandavano i ragazzini per non rischiare in prima persona di essere arrestati. Gli insegnavano in fretta e furia l’essenziale. Ti dovevi fidare, lungo una notte intera di terrore. Non c’era scelta. Se chiedevi qualcosa, se protestavi, la risposta arrivava dalla canna del fucile. Senza la minima esitazione.” “Ma come? E viaggiavate tutti così?” “Non avevamo scelta. Cosa pensavi che fosse, sfuggire dalla miseria? Un pranzo di gala?” “No, beh, sì… È solo che non ci avevo mica pensato davvero.” “Tutto quello che ho sopportato da allora, tutto, il lavoro duro, la fatica, il dolore, la nostalgia che torce lo stomaco, tutto, l’ho fatto perché mio figlio non debba mai fare un’esperienza del genere. Nessuno dovrebbe provare una paura del genere per cercare un futuro.”

Nella pancia della nave, nel garage dedicato ai mezzi pesanti, due ragazzi, probabilmente curdi, lottano contro il caldo infernale della stiva e la fame, nascosti sotto due TIR, magari proprio sotto quelli di Florian e Sergio. Sono saliti a Patrasso, scattando al momento buono per eludere i controlli della temuta polizia greca. Ieri mattina, mentre vagavo per il porto nel tentativo di raggiungere il molo giusto per l’imbarco, li ho visti attendere l’istante giusto nascosti dietro una Jeep. Loro mi hanno visto che li ho visti, mi hanno fatto segno di stare zitto, per favore. Allora mi sono spicciato a trovare l’imbarco, mi sono messo in fila con gli altri vacanzieri di ritorno, un po’ scosso. Cioè, lo sapevo che sono in molti a viaggiare distesi sotto i camion, a sfidare la sorte in questo modo, per arrivare in Italia. Ho letto più di un reportage sull’argomento. Ma che qualcuno potesse farlo qui, di rischiar di crepare per raggiungere Ancona, qui, sulla nave con cui torno dalle vacanze, ecco, non ci avevo mica pensato.

Sergio che non ci aveva mica pensato non può dirsi innocente. Io che non ci avevo mica pensato non posso dirmi innocente.
Chi prima non ci aveva mica pensato, e ora interrompe le campagne elettorali per fingere di combinare qualcosa, sicuramente può dirsi colpevole.
Chi ci ha pensato e ha deciso di tagliare i finanziamenti alle missioni di soccorso può dirsi assassino.
Chi ci ha pensato per auspicare eccidi in modo da poter speculare politicamente sui morti può dirsi sciacallo.

Il Folletto del Quartiere

follettotorinoLa primavera avanzava a spruzzi, a lame di sole taglienti, di quelle che penetrano negli appartamenti a fare brillare il pulviscolo nell’aria immobile dei salotti e delle camere da letto, quando la Vorwerk calò sul Quartiere. Inesorabile come la mannaia del macellaio all’angolo, dilagante come le acque del torrente una volta rotti gli argini, pervasiva come gli sciami estivi di zanzare tigre, prese la forma di Giuliana Nobili, un’abile venditrice di mezza età: spigliata, non invadente né remissiva, garbata ma senza eccessi, la loquela che fa tutto più semplice di quel che è. Dopo che la professoressa Tarasconi le ebbe aperto per prima la porta, fu tutto un infilarsi nelle case tirandosi appresso l’aspirapolvere e il duplice valigione, per uscirne un’ora dopo con in mano la firma sul contratto. Del resto, se la Tarasconi, cui la vulgata (che lei badava bene a non smentire) attribuiva ben tre lauree, nonostante la realtà la volesse professoressa di Educazione Tecnica alla scuola media, e quindi solamente diplomata all’Istituto tecnico femminile, se un cervello così fino, se un’intelligenza tanto illustre, aveva acquistato un aspirapolvere convinta dalla dimostrazione, doveva trattarsi con tutta probabilità di un prodotto straordinario. Certo, il fatto che un aspirapolvere costasse, nel Quartiere si ragionava ancora in lire, da due a cinque milioni a seconda delle dotazioni, suscitava qualche perplessità. Ma tant’è. La signora Greco, nata Tetyana Shevchenko, collaboratrice domestica in casa della docente, impose subito l’acquisto del costoso macchinario al marito postino, aggiornato solamente a cose fatte: l’episodio si risolse in serate di strepiti e musi lunghi e, dietro suggerimento della Nobili, in ventiquattro rate comode comode. Anche la signora Gallardo, abbacinata dall’efficienza dell’accessorio per pulire i materassi, non seppe resistere, nonostante fosse indebitata oramai con tutto il Quartiere: al pollivendolo faceva sempre segnare, così come al fornaio e al minimarket. Come ottenere il credito necessario per l’anticipo? Poiché al tabacchino che le prestava i soldi dei grattini, ché tanto poi se li rinfilava in tasca, non osava rivolgersi per un bene così voluttuario, si risolse a bussare alla porta di Antonello Speranza. L’anziano, gobbo e macilento, ferroviere pensionato, ora prestatore di denari a interesse, le aprì la porta del suo appartamentino lurido. Cinque carte da cinquanta, tre cifre su un taccuino dal cartoncino unto di ditate e un ci vediamo a fine mese con la prima rata. La Gallardo prese la porta ringraziando la Vergine di Guadalupe, con il cuore che batteva all’impazzata per quella ricchezza improvvisa. Prima che l’uscio di Speranza le si richiudesse alle spalle, vi si infilò la Nobili col famigerato doppio valigione. Ogni giorno un corriere scaricava sui marciapiedi squassati del Quartiere scatoloni contenenti l’agognato elettrodomestico. Dopo un paio di mesi ogni benedetto appartamento mandava giorno e notte il ronzio familiare. Pagare la rata pesava a tutti, in quelle strade popolari, ma mai che qualcuno si lagnasse, tutti anzi a dire di come fosse cambiata in meglio la loro vita, con un alleato così fedele per le faccende domestiche. L’ultima sfida, la Nobili la vinse che giugno era alle porte. Montò la macchina, districandosi tra vuoti di birra e portacenere stracolmi, nel salotto di Matteo Salvi, trentenne, disoccupato, tossicodipendente. «Cosa le pulisco? Il tappeto sotto il tavolino del divano può andar bene?» «Veda lei…» Sbadigliò Salvi succhiando un spinello. La Nobili manovrò per qualche secondo il battitappeto, questa volta, a differenza di altre, con scarsa convinzione. «Ecco vede? Guardi nel sacchetto. Questo è lo sporco che Folletto rimuove dal tappeto in pochi istanti.» Salvi ruttò, poi si allungò, svogliato, a guardar dentro il sacchetto per buona educazione. Si grattò la testa, un po’ indeciso. Quindi infilò un dito nello strato di polvere trattenuta dalla microfibra e sotto lo sguardo sbigottito della Nobili lo portò alla bocca, saggiandolo con la punta della lingua. Sguardo ebete, bocca aperta: «Quanto ha detto che costa questo giocattolino?» La Nobili si trattenne, ma l’urlo di trionfo le traboccò comunque dagli occhi: «Non gliel’ho detto. Lei quanto vuol spendere? Cinquanta al mese? Troppo? Trenta?»

Non c’è di che

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Come cacciatori cheyenne sulla strada del bisonte, come guerrieri apache acquattati in attesa della battaglia, le ragazze e i ragazzi che tirano su il fango si pitturano il volto, tracciandovi spessi segni con la melma marrone. Cacciano fuori espressioni da veri duri e alla faccia di chi li vuole pii angioletti ardenti d’inconsapevole bontà ci ricordano che gli angeli non esistono. Esistono ragazze e ragazzi che sono sempre, naturalmente, tutti giovani e belli. Noi, che facciamo schifo, preferiamo attribuire caratteri divini a comportamenti normalissimi, in modo da poterci tranquillamente guardar bene dall’imitarli e, al contempo, sentirci assolti.

Il torrente non è entrato nel negozio del parrucchiere, ne ha solo lambito la vetrina, ma ha depositato sulla strada e sul marciapiede antistante un soffice strato di sedimento cremoso. Il titolare è molto preoccupato: con la via ridotta in quel modo, anche se il negozio è pulito ed efficiente, i clienti oggi non arrivano. Così ha mandato Malati, la donna indiana che lavora per lui, a creare un passaggio nella guazza. Lei si dà da fare armata di spazzolone di plastica e di una grossa pala smaltata di rosso, probabilmente una di quelle distribuite dai furgoncini del Comune. Il proprietario del negozio fuma con la schiena appoggiata allo stipite dell’ingresso e guarda preoccupato l’orologio: sono passate le quattro, il pomeriggio sta trascorrendo in fretta e già la mattina è andata persa. Probabilmente pensa che Malati sia troppo lenta a spalare, allora chiama un gruppo di questi ragazzi che, con i loro segni tribali sul volto, si accaniscono contro un cumulo di detriti che ostruisce un tombino. “Oh, siete mica dei volontari?” “Sì, ha bisogno?” “Che bravi ragazzi! Non è che mi dareste una mano a ripulire qui, davanti al negozio, così la gente può passare?”

Malati lavora dieci ore al giorno: shampoo, massaggi, tagli, tinte, pieghe, pulizie. Malati fa di tutto, sei giorni alla settimana, dalle nove alle diciannove. Malati guadagna 35€ al giorno e ha un contratto che dice che lavora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Potrebbe anche andarsene e il suo datore di lavoro se la vedrebbe nera, di altre brave come lei non ce ne sono mica in giro. Ma anche se lo facesse, cambierebbe poco: tutti gli altri parrucchieri che ha sentito pagano così. E così passa la vita restando al proprio posto, a rigare diritto per pagare, chissà con quali miracoli, l’affitto e l’istruzione dei figli. Colpa di un mercato del lavoro selvaggio, dell’ampia disponibilità di apprendisti da sfruttare nel settore. Colpa delle istituzioni, che non proteggono, non tutelano la dignità e la qualità della vita delle persone. Non di fronte alla furia del fango, non davanti alla rapacità umana. Però impongono riforme del lavoro che tutto sono tranne che l’unico Jobs act di cui c’è davvero bisogno: quello che ci liberi da ogni sfruttatore.

“Certo, arrivo subito!” cinguetta una ragazza emergendo a fatica da un banco di sabbie mobili. Si avvicina al parrucchiere che le sorride facendo luccicare il dente d’oro, mentre ravana il taschino in cerca del pacchetto di Merit. “Grazie, bella!” “Uh, prego, non c’è di che. Tenga, questa è la pala!” Lui si ritrova a reggere il badile per il manico, lo stupore disegnato nella bocca aperta e negli occhi fissi al vuoto. Lei gira i tacchi e se ne va. Malati si gira di spalle perché proprio non ce la fa a nascondere il sorriso.

Fedeli alla linea

Annarella-CCCP-3Stasera al circolo si esibiscono ex-CCCP con Angela Baraldi alla voce e così la sala si riempie in fretta. La concorrenza, del resto, non è granché: da queste parti, un live decente lo si vede ogni sei mesi, a meno di non spostarsi nelle province limitrofe. In più un’ordinanza antirumore a Cinque Stelle caccia a letto gli avventori dei locali dell’Oltretorrente a mezzanotte o poco più. E in TV danno Ballando con le stelle. Come non fare allora il pienone buttando Zamboni sul palco a suonare Punk Islam e compagnia bella? Mancano pochi minuti al concerto e la coda al banco del bar è spumeggiante. C’è uno che spiega alla barista come si fa un vero gin tonic, lei lo ascolta con la stessa faccia intenta che mette su al mattino quando va a lezione di Letteratura del Rinascimento. La cosa provoca malumori e borbottii, fino all’esasperato: “E alooora!”. Lei ficca in fretta il bicchiere di plastica nella zampa destra del tipo, versandogli metà del contenuto sulla camicia. La macchia che si allarga sul costato, lui che gongola allontanandosi con un sorriso beato.

Ogni sorta di creatura datata e stropicciata si aggira stanotte nell’oscurità della pista: parrucconi cotonati sale e pepe, facce stravolte sotto spessi strati di cerone bianco. Infermiere strizzate in vestiti originali anni ho tanta disperazione, conservati per le grandi occasioni; professori spelacchiati con il maglioncino di lana e punkettoni di professione. Bocche sdentate, ghigne solcate in guisa di regnatela, pance che spingono sotto le camicie e spalle curve sotto il peso di borchie e giacche di pelle. Il postino si è truccato gli occhi di nero e forse si è messo anche un rossetto scuro, ma non ci giurerei. Salta fuori che dopo il concerto la serata vira al dark e allora si spiega anche la considerevole calata di vampiri da tutto il circondario. Altissimi, scavati nel volto e nel corpo, pelo canuto a ciuffi lunghissimi in testa e sul dorso delle mani, alito probabilmente fetido: li riconosci subito. La Sposa cadavere ha un filo di sangue vermiglio che le cola da una piega delle labbra affilate.

Quando la band attacca, sotto il palco si scatena il finimondo e per selezione naturale nel pogo sono i deboli che cadono subito. Fuori il primo che si controlla con le dita la dentatura, forse un ponte ha ceduto. Via il secondo, piegato a metà, viola in faccia, si tiene i coglioni con due mani. Un amico gli piega indietro la testa e gli versa in bocca mezza birra gelata che gli va di traverso. Poi un altro lo afferra per i piedi e lo trascina a bordo pista. Il terzo gattona tra i calci tentando di recuperare gli occhiali fracassati, che schizzano impazziti qua e là scivolando sul velo di condensa e birre versate che avvolge il pavimento. Finalmente una ginocchiata nella nuca lo manda al tappeto. È un duro lavoro, stare qua sotto. Chi ci sta da vent’anni, chi da trenta, il tizio che mi tengo davanti e uso come scudo umano, probabilmente da cinquanta. Sotto il palco prendiamo colpi e li diamo, da sempre. Siamo un branco di sopravvissuti e da sempre TIFIAMO RIVOLTA, perché c’è sempre una buona ragione, da Craxi a Renzi, per la rivolta.

E noi da sempre, solo, TIFIAMO RIVOLTA. Solo, TIFIAMO, da sempre. Nient’altro.

L’angoscia dell’influenza

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Stando ai dati Istat 2011 il 47% delle donne italiane, in quell’anno, non ha letto libri. Per quanto riguarda i maschietti, tradizionalmente dediti a più virili occupazioni, tanto che già il Boccaccio si rivolgeva a un pubblico femminile, i non lettori arrivano al 60%. Che in Italia si legga pochissimo non è certo una novità. Ma di fronte a tanta desolazione non può che sorprendere e consolare come la lettura, nel nostro paese, per quanto scarsa, si riveli tuttavia decisamente feconda. A quanto pare infatti ciascun italiano, nella vita, è stato influenzato da dieci libri. Le tendenze sui social parlano chiaro: le liste con “i dieci libri che più mi hanno influenzato” o “che più hanno segnato la mia vita” irrompono epidemiche e prepotenti sugli schermi azzurro facebook di telefonini e tablet.

Ecco, che fossimo un popolo profondamente influenzato dalla buona letteratura, lo sospettavo da tempo. L’elevato grado di civiltà che si respira all’interno di un outlet della pianura padana, per esempio, è una spia inequivocabile di come la lezione dei classici sia viva nel quotidiano degli italiani. E cosa dire poi della qualità sopraffina della TV generalista nazionale? Chiaramente si rivolge a un pubblico il cui gusto è plasmato da letture altissime. Gli ingorghi stradali, in città, si risolvono spesso in dispute tra dantisti, categoria che per altro annovera tra le sue fila anche celebrità come Marcello Dell’Utri. In quale altro paese, se non la coltissima Italia, lo sbarco di profughi in gran parte in fuga dalla Siria scatenerebbe un allarme tubercolosi? Mi rendo conto che tendo a divagare e che sia invece meglio restare sul pezzo, che poi è il tema di questo post: il problema dell’influenza.

Influenza, già. Perché qui non si parla dei dieci libri che sono semplicemente piaciuti di più, ma di quelli che hanno segnato le nostre vite così interessanti, forgiato le nostre personalità così complesse, edificato il nostro solido e articolato sistema di valori. Un’influenza che evidentemente è così forte da esprimersi non solo a livello individuale, ma da investire anche il piano collettivo. Interpretando le linee di tendenza ben evidenti nelle liste dei “dieci libri” si potrebbe quindi ricostruire lo Spirito della nostra Nazione. Un’operazione tanto ambiziosa, però, richiede anni di lavoro e spazi diversi da quelli di un blog. Tuttavia qualche considerazione sui libri più “influenti”, quelli cioè citati con maggior frequenza nelle catene su facebook, e sulla natura di questa “influenza” può comunque essere fatta.

Harry Potter, in assoluto il più citato, ha formato contemporaneamente grandi e piccini. La Rowling è assimilabile ai pilastri della storia letteraria occidentale, quali Omero, Dante, Shakespeare o Goethe: non sorprende che gli italiani, lettori di razza, si siano fatti influenzare da lei. Siamo un paese dove tutto è magia, sogno e incanto. Il signore degli anelli è in assoluto l’opera letteraria più pallosa della storia, dalla quale è tratta la serie di pellicole più incredibilmente pallose delle storia. Gli italiani non lo leggono per gusto, ma per formarsi al lavoro inteso come sacrificio, così necessario in questi tempi bui. La Bibbia non l’ha letta nessuno, su! Ma tutti hanno un amico ciellino su facebook. La presenza di Piccole donne tra i libri più influenti spiega invece come l’Italia sia la patria dell’emancipazione femminile in particolare, e in generale dell’emancipazione di ogni minoranza vilipesa, la Mecca degli oppressi. La casa della libertà, insomma. Il mastino dei Baskerville: chi non è stato influenzato da Sherlock Holmes scagli la prima pietra. Le notti bianche davanti ai plastici di Bruno Vespa le abbiamo fatte tutti. L’italiano ama la giustizia e la privacy. Tantissimi influenzati da Il libro di Mormon, ma l’insegnamento principale di questo importante testo, ovvero che in bicicletta si debba indossare il caschetto, stenta ancora a decollare. Questione di tempo. Molto successo riscuote anche Sulla strada di Kerouac, naturale complemento al testo mormone insieme al Pasto nudo, che però purtroppo non rientra ancora tra i testi più influenti. L’astuzia italiana, quella dote pregevole che ci toglie d’impaccio sostituendo una furbata all’impegno, si apprende dall’Odissea, mentre l’amore incondizionato (a distanza) per gli orsi bruni e gli animali feroci in generale viene da Il richiamo della foresta.

Cani randagi

Gli altoparlanti della piscina comunale diffondono la voce di Eddie Vedder sugli stanchi bagnanti comunali, che ingollano birre e patatine e tengono d’occhio preoccupati i marmocchi e il cielo carico di nuvole. Molti artisti rock, a un certo punto della loro carriera, rincretiniscono e si mettono a girare videoclip in piscina, dove ci danno dentro con melodie zuccherose tra bambole siliconate e cocktail colorati e spumeggianti. Ho sempre ritenuto che i Pearl Jam, dato il loro percorso artistico piuttosto coerente, non corressero questo rischio e infatti di video con Vedder a bordo vasca, stravaccato tra indossatrici di bikini e occhiali da sole griffati, finora non se ne sono visti. Ma non avevo previsto che un giorno il suono di Seattle avrebbe accompagnato i tranquilli bagni domenicali delle famigliole parmigiane.

Un po’ più in là, dove c’è la vasca piccola, la musica cambia. Il volume, innanzitutto, è a palla e il pezzo è quella canzoncina abominevole che fa: “Salutare!” E tutti salutano con aria ebete: “Urlare!” E via la gara a chi si lascia andare al barrito più scomposto. Si tratta, scopro grazie a un cartello scarabocchiato in fretta e furia, di una specie di corso di aquagym per bambini e ragazzi, una roba da incubo che mi muove ricordi tremendi e timori ancestrali. Sbircio l’ammasso di mostriciattoli che si dimenano sollevando spruzzi improponibili. Lì, tra loro, ci sarà di sicuro qualcuno che soffre come soffrivo io quando, da piccolo, mi costringevano a partecipare ad attività di quel tipo. Replicare i movimenti di un idiota che mi sta di fronte non mi è mai riuscito e ancora oggi rifuggo con cura i vari corsi che la palestra mi propone. Credo che tutto nasca dal non aver mai trovato risposta a una questione di fondo: se, per esempio, il pirla alza la zampa destra, io cosa stracazzo devo alzare? La mia destra? Oppure devo comportarmi come uno specchio? Nel dubbio perdo subito il ritmo e, quando cerco di riorientarmi imitando un vicino, finisco per peggiorare le cose, dal momento che per guardarmi intorno perdo di vista l’istruttore, il quale nel frattempo è già riuscito a proporre una decina di esercizi differenti. A questo punto qualcuno del gruppo incomincia a fissarmi e, senza ovviamente perdere il ritmo, mi indica agli altri, finché tutti mi guardano con compassione, ma rimangono in perfetta sincronia con il maledettissimo programma di allenamento. Ecco, quando arriva quel momento io me ne vado e, ora che l’età adulta è sopraggiunta, nessuno può fermarmi, come mi succedeva da bambino. Anche se, a dir la verità, salta sempre fuori l’entusiasta che, pensando di fare una buona azione, si lancia in un: “Ma non andava mica male!” “No, grazie. Faccio schifo!” Io me ne vado da questo balletto, da questo corso, da questa dannata lezioncina di ginnastica spiritosa. E per darmi un tono con me stesso comincio a raccontarmi che per forza queste cose non mi vengono, perché io sono così di natura e non riesco ad allinearmi e a fare le stesse cose di tutti, non replico gesti da imbecille, non scatto in piedi a comando, non sono una scimmietta ammaestrata, ma un cane randagio e ribelle e mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.

Sì, lo so, sono un po’ esagerato, oggi che evidentemente il grunge è diventato musica da piscina e la mia generazione ha perso. Ritorno sui miei passi, galvanizzato da questa storia del cane randagio. Spin the black circle si interrompe in uno schiocco dell’altoparlante. Parte Angels di Robbie Wiliams. Ah, ecco, l’hanno tolta subito.