Archivio | Maggio 2014

#VinciamoNoi

052414_1912_VinciamoNoi1.pngVinciamo noi, stai sicura, noi vinciamo sempre. Facciamo lo slalom tra le sagome dei politici e gli stemmi di partito incollati ai pannelli di zinco del Comune e respiriamo l’aria che sembra pulita, perché ci sono le elezioni. Ci sono le elezioni e, anche questa volta, vinciamo noi. Noi che sghignazziamo di queste facce pitturate, ritoccate, lucidate, di queste testone pettinate, cotonate, inclinate sopra slogan che dicono Cambia Verso, che dicono Più Italia, che dicono Basta €uro, che dicono COMPRO ORO. Camminiamo nel sole di maggio verso la scuola elementare più bella della città, che ha un percorso per giocare a Mondo pitturato sull’asfalto del parcheggio. Andiamo a votare, andiamo a vincere. Abbiamo uno scudo di plexiglass, grande che c’è da essere in due per impugnarlo, per ripararci dai motteggi del bulletto con la gorgia. E non arrivano fino a noi, che da vecchie tartarughe portiamo una spessa corazza, gli sputazzi del ducetto dei cittadini. In garage c’è il vecchio telo di plastica gialla da campeggio, ci ha sempre protetto dal diluvio di sogni televenduti, telepromessi e telefottuti, ma ora non ci serve più. Ora che anche i nostri stessi corpi sono diventati impermeabili. Xenofobo-repellenti, nord-repellenti, fascio-repellenti, invece, lo siamo sempre stati. Per questo, sai, sono così sicuro che vinciamo noi, anche questa volta, anche se l’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, come diresti, con il tuo poeta, tu. Anche se persino il ricordo delle belle idee annaspa nel fango. Anche se l’Italia fa schifo, i partiti fanno schifo, i movimenti fanno schifo, la stampa fa schifo, l’Europa fa schifo, il vuoto pneumatico di sogni, ideali e sentimenti fa, più che schifo, impressione, paura. Anche stavolta, mentre andiamo a votare, mentre non andiamo a votare, mentre non sappiamo più che fare, andiamo a vincere.

Vinciamo noi perché alla sezione elettorale ci andiamo con il cane al guinzaglio e tu aspetti paziente che io mi produca nel solito battibecco con lo scrutatore, o il carabiniere, di turno, che non vede di buon occhio la presenza del quadrupede in cabina. Poi, quando usciamo, mi guardi e mi dici se devo sempre fare queste scene da matto. Se non ci arrivo da solo, una volta per tutte, a capire che i cani non possono andare alle urne. Vinciamo noi, tranquilla, perché io e te ci compensiamo per bene. Per esempio, quando siamo dentro, con la copiativa in mano, io scrivo sempre Antonio Gramsci, mentre trovo che tu sia in odore di Togliattismo, con il tuo rimpianto per un Partitone che in fondo non è mai esistito. E poi tu, che secondo te voti più sinistra di me, mi guardi con compassione e non capisci che secondo me sono io che voto più a sinistra di te.

Vinciamo noi, puoi dirlo forte, perché io e te, lo sai, ci incastriamo perfettamente e così, incastrati, siamo forti e sfidiamo tutto quello che ci circonda. Dico che ci incastriamo perfettamente perché quando ci accartocciamo sotto le coperte, per esempio, i nostri corpi fanno una piega giusta e combaciano a meraviglia. E anche se io sudo molto, per colpa delle spesse coperte sotto cui mi costringi, a te non fa schifo, o almeno non lo dai a vedere più di tanto. Ci incastriamo perfettamente, dicevo, perché tu appicchi incendi mentre io tiro secchiate d’acqua, perché quando cerco di concentrarmi sulla lettura di un nuovo romanzo tu mi interrompi declamando poesie, perché hai sempre pronte cascate di parole per riempire i miei silenzi e per tanti altri buoni motivi.

Azienda scuola aziendalista

C’è il dirigente, un tipo nervoso e manipolatore, che quando parla di scuola-azienda si gratta. No, non si gratta perché l’idea di incastrare l’istituzione scolastica dentro un modello fatto per vendere qualcosa, come mortadelle, per dire, o pignatte, lo disturbi. Si gratta bensì perché, intanto che parla, di sottecchi luma le facce degli insegnanti che tenta di convincere della necessità della sua visione, di quel che lui chiama innovazione: un’alzata di sopracciglia, la socchiusura degli occhi, la stretta delle labbra e il protendimento del mento verso il basso sui volti segnati dei docenti sono segni inequivocabili di scetticismo pregiudizialmente e irragionevolmente espresso: “Perché non vogliono mica mai cambiare niente ciò, questi qui, ostrega!” Lui, il dirigente, il venexiàn, ha le sue ricette, per fare della scuola un’azienda. Ricette che, se gliele lasciassero mettere in pratica ciò, si risolverebbero un bel po’ di problemi.

Una di queste formule miracolose si rivela con puntualità, ogni anno, con l’avvicinarsi degli scrutini finali. Consigli di classe di maggio nelle aule che sono forni crematori, i tabelloni con le medie dei voti del registro elettronico sono tinti di rosso insufficienza da cima a fondo: un diluvio di tre, di quattro e di cinque. Ogni tanto una riga verde, sparuta, un raro secchione, di solito simpatico come una bella ditata in un occhio. Il dirigente salta sulla seggiola del capo, quella con i braccioli, di fronte tanto scempio si lagna: “Cossa
xé qua? Siete matti? Volete mica bocciare tutta quella gente lì. No gò capìo, mi volete rovinare ciò!” Il dirigente si dà una grattatina ancora, sotto l’ascella, passando dal collo sformato della maglia e spiega che la scuola l’è un’azienda c’è da promuovere tutti, che così la ditta è più produttiva, fa più fatturato in pratica. Se non produciamo, la gente non si iscrive e va tutto a remengo: “Tutta la baracca, qua, salta per aria!”

C’è l’insegnante, un tipo rigido e inflessibile, che quando parla di scuola aziendalista si gonfia. Ma non si gonfia perché l’idea di sfornare diplomati ignoranti a pedate nel didietro, come fossero tondini, per dire, o pulegge, lo inorgoglisca. Si gonfia bensì perché lui c’ha lavorato, in azienda, e sa cosa vuol dire farsi il paiolo, e cos’è la competizione, mica star qui a perder del tempo. È un aziendalista lui, fa dell’efficienza una legge, del suo giudizio il metro infallibile con il quale mandare avanti quelli che ce la fanno e respingere al mittente quelli che non ci arrivano. “È giusta l’equazione? Bene. L’è sbagliata? Bocciato. Ah! Quando c’era l’Avviamento, che quelli che non ce n’avevano voglia non venivano a rompere i coglioni a scuola!” Lui, l’insegnante aziendalista, ha le sue ricette per una società migliore, che parta da una scuola davvero selettiva, come un’azienda, cazzo (questo qui non cede al dialetto, ma non lesina in turpiloquio). Ricette che, se gliele lasciassero mettere in pratica, si risolverebbero un bel po’ di problemi.

Consigli di classe di maggio nelle aule che sono forni crematori, i tabelloni con le medie bla bla bla… Inevitabile, prepotente, esplode il conflitto tra scuola-azienda e scuola aziendalista. “Boccio tutti! Boccio tutti!” Urla paonazzo, sputando pezzi di barrette ai cereali Diet Hero, l’aziendalista. “Ma cosa vuol bocciare, ciò? Questo qui, per esempio, ha tre in Inglese e Storia e due in Matematica e in Diritto… però ha cinquemmezzo in Informatica!” Replica flemmatico scuola-azienda grattandosi l’interno coscia attraverso una tasca sfondata dei pantaloni: “Io gli darei una chance!” La tenzone prosegue a lungo, volano parole grosse, reciproche insanabili accuse di incompetenza. Poi, quando ormai sembra incomponibile la frattura fra due strategie aziendali così distanti, avviene il miracolo, la convergenza. Azienda scuola aziendalista individua un paio di disgraziati per classe, scelti accuratamente tra i più svantaggiati sotto il profilo economico, sociale o culturale, (che non faccian ricorso!) e sulla loro pelle trova unità d’intenti, rimandando lo scontro all’anno successivo.