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Il cinghiale

Un racconto dell’epidemia

cinghiale-1La letteratura è menzognera fabbrica di illusioni. Tutti abbiamo letto il Decameron, o l’abbiamo studiato sul Baldi, e così, alla notizia della serrata delle scuole, dell’istituzione di una Zona Rossa, del dilagare dell’infezione, la boccaccesca brigata, isolata in campagna a comporre un cosmo ordinato di piaceri, facezie e sogni belli, è parsa da subito alternativa naturale al caos lombardo. Nei borghi appenninici, il cigolio delle imposte ha annunciato il ripopolamento delle seconde case, mentre credenze incrinate e tavolacci di legno si risvegliavano sotto l’acciottolio rinnovato dei piatti. Genitori in fuga hanno sventolato le scacchiere bianche e rosse delle tovaglie per imbandire cibi genuini e semplici, i bambini hanno tirato fuori vecchi giocattoli dalle scatole di cartone impolverate e qualcuno ha provato a capire se la grappa dimenticata sulla cornice del caminetto, nella sua bottiglia con dentro il veliero, fosse ancora buona. Oneste brigate, per la verità, un po’ più nucleari e meno licenziose dell’originale, comunque unite e forti della magia dello stare in paradiso ad osservare il mondo in fiamme.

Ma la letteratura è un imbroglio e, in effetti, non è che Boccaccio fosse proprio un infettivologo. Selezionare , in una Fiorenza impestata, dieci giovani perfettamente sani da mettere in isolamento (perché poi ci sono il periodo di incubazione, i pazienti asintomatici e le cento variabili di cui siamo ormai esperti) sarebbe stata impresa dalla riuscita decisamente improbabile. Nella villa di campagna, se fosse esistita, avremmo trovato re e regine intenti a ragionar di “sozzi bubboni di un livido paonazzo”, a rantolar tra i catarri di forme polmonari e della loro letalità. Ispirarsi al Decameron per affrontare l’epidemia è un’idea geniale se l’intendiamo come un aggrapparci alla forza salvifica della narrazione, è pensata piuttosto tócca se invece la pigliamo come un ricalcare il sogno di isolamento dal mondo di un gruppo di privilegiati. Inoltre, non andrebbe sottovalutato il fatto che le potenzialità creative della middle class in villeggiatura sono piuttosto carenti, sicuramente nemmeno lontanamente all’altezza di quelle dei vari Dionei ed Elisse.

Questa nostra vita nei boschi fuori stagione, insomma, dopo un impatto di incanto, si fa un po’ più spenta, più malinconica e ansiosa: non protegge, più di tanto, dal virus ed è tarlata dalla noia. Svanita l’illusione di fare dell’epidemia un periodo da declinare al languore di un intontimento leggero, che cosa ci aspetta? Questo è quanto abbiamo iniziato a chiederci, noi che ci siamo autoisolati in questo modo.

Undicesimo giorno, ore sedici, allenamento prima che il sole tramonti. Attraverso il bosco lungo il sentiero, di corsa, sotto la pioggia. Le gambe rullano rimbalzando sulla gomma delle scarpe rosse e la terra è come vibrasse, spinta via sotto la patina sottile di fango vischioso come bava di lumaca. Da un lato il massiccio della Pietra svanisce a lampi, accecato da coltellate di sole tra la nebbia e le nuvole, oltre gli alberi nudi, tralicci storti contro il cielo metallico. Appare all’improvviso, con lo schiocco secco che fa un ramo spezzato, più forte del ticchettio della pioggia. Corre parallelo al tracciato, appena a monte, a tre o quattro metri da me. La paura diventa una contrazione innaturale dei muscoli della schiena, mentre le gambe girano a mille, molto più forte di quanto sarebbe prudente su un terreno così sconnesso. Non posso girarmi a guardarlo, rischio di mettere un piede in fallo, ma avverto la sua presenza di animale orgoglioso e possente. Cento, duecento, trecento metri. Penso assurdamente al romanzo geniale di Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance. A quanto sia divertente. Il cinghiale non è un nemico, ma una coscienza critica spiritosa ed ecologista. Corro, senza più paura, sempre più forte, senza sapere da dove passi questa pista, né dove finisca. Quando mi accorgo di essere rimasto solo, non so più dove sono, non so in che momento esattamente lui si sia stancato di correre. Ma so che tutto andrà bene. La letteratura è menzognera fabbrica di speranza.

Respirare

Society, you’re a crazy breed

I hope you’re not lonely, without me.

Eddie Vedder

Si lascia la statale per la provinciale, quindi la provinciale per la strada consortile, qualche zig-zag tra le molte sfumature di un autunno pastello ripassando i contorni dei rilievi dolci della pedemontana, infine si abbandona l’asfalto e ci si arrampica tra polveri e puzza di frizione sullo sterrato che porta a un grumo di case di sasso. Qui, un pranzo domenicale ce lo si aspetta a base di qualche cosa di rosso buttato sulla griglia, che sa un po’ di fumo di legna e un po’ di sangue, invece S prepara una zuppa di pesce, con l’intingolo e tutto e anche i crostini, molto gustosa. Il pesce è di mare, perché quello che si tira su dal fiume, qui, è inquinato e va bene, al massimo, per i gatti, ci spiega L. “Poveri gatti!” si dispera Emiliana, cacciandosi le dita tra i capelli. “Beh, sempre meglio dei mangimi…” puntualizzo considerando tra me che non ho mai dato al mio cane altro che cibo preconfezionato. “Infatti” sentenzia L, che oltretutto è, per mestiere, l’esperto di animali.

Dopo pranzo, e la strepitosa vittoria della Fiorentina orecchiata alla radio, unico contatto con il mondo esterno, la sera scende improvvisa. Il buio è totale, il centro abitato più vicino a chilometri da qui. Guido verso casa con gli abbaglianti sparati, senza incrociare nessuno e interrogo la scelta di S e L: una vita qui, dove c’è la legna da spaccare per scaldarsi e il telefono non prende, per respirare, per quanto possibile, al ritmo del pianeta, delle stagioni, alla faccia di tutte le contraddizioni. Perché la città, il lavoro, il traffico, l’avere sempre qualcuno attorno, tutta questa umanità chiassosa e disperata, in qualche modo, ti respinge.

A casa piazzo il riscaldamento a mille, nonostante la Parma minacciosa, in piena, mi rammenti le mie responsabilità in fatto di riscaldamento globale. Leggo che nei mari a sud della Thailandia, tra il turchese di acque incredibili, vivono gli ultimi moken, pescatori nomadi che trascorrono otto, nove mesi l’anno sui loro kabang, specie di canoe scavate nei tronchi, respirando al ritmo del pianeta, delle maree, vivendo di pesca e raccolta. Per la tradizione moken, la prua del kabang rappresenta una bocca in cerca di cibo, mentre la poppa simboleggia il tratto estremo del tubo digerente. Lo tsunami del 2004 ha portato alla ribalta delle cronache mondiali questi “zingari del mare”, ma ne ha anche segnato il declino come “civiltà”, distruggendo gran parte del pesce sul quale si fondava la loro economia. Il presente dei moken è fatto in alcuni casi di resistenza, in altri di adattamento alla vita sulla terraferma, in molti di alcolismo e abbandono. Così, perché anche se vivi al ritmo dei suoi sospiri, spesso la natura ti caccia, ti respinge.

“Il rapporto tra uomo e natura è complesso” mi ripeto impastando la pizza per la cena, “analizzarlo in profondità è superiore alle mie forze”. Però un bel tema sull’immaginare una vita a bordo di un mezzo di trasporto, in balia della Fortuna, a quelli di seconda, domani non lo leva nessuno.

Streghe nella notte di San Giovanni

In una valle perduta dell’Appennino parmense, raggiungibile solamente a cavallo di scopa e dimenticata dai raggi del sole che si infrangono, di giorno, sul versante di un monte vicino, si apre una tetra radura, con al centro un albero di noce. Annualmente, in questo sito da brividi, si radunano le ultime streghe sopravvissute al pensiero razionale e al turbocapitalismo dominante le società occidentali, che osteggiando l’improduttività, ha costretto molte loro ex-colleghe a procacciarsi un impiego dignitoso, solitamente come docenti di lettere. La data prescelta per la celebrazione del Sabba è quella della notte di San Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno, mentre in tutta l’Emilia occidentale, protetti da rosmarino e trecce d’aglio, ci si ingozza di tortelli alle erbette annaffiati di burro fuso, in attesa della rugiada.

L’atmosfera dell’appuntamento di quest’anno non è delle più allegre: Satana, da secoli latitante, non dà più il la a infinite danze orgiastiche sollevando una zampa caprina e, soprattutto, le streghe sono rimaste in quattro e un po’ scorate non fanno che lamentarsi. Nerina, che parla ora, è nata in Senegal, è alta due metri e prima di apprendere l’arte della stregoneria ha attraversato l’Africa su un furgone stracarico di stracci ed esseri umani e il Mediterraneo su una bagnarola rattoppata. Ora sbancala ortaggi in un discount appena fuori Parma. Romana, quando non saetta nel cielo con la sua fidata saggina, chiede l’elemosina davanti al portone di una chiesa, in un paesino della Bassa. Vive in una roulotte, porta gonnelloni larghi e colorati, ha più figli che anni. Gaia, che pare un po’ più giovane delle altre, veste capi appariscenti, porta capelli tinti fucsia e acconciati in forma di nuvola, anima la notte nei locali del circondario e la mena a tutti con l’ultimo concerto di Madonna. Gaia ascolta Nerina che dice, lamenta e rivendica, ma pensa ad altro, così come forse pensa ad altro Luna, che non parla mai se non quando, buttando la testa all’indietro, gli occhi che ruotano nelle orbite e sembrano volersene saltare fuori, allunga una zampaccia rachitica alla luna e dice, appunto: “’uuna”. Dopo che l’inferno in cui ha vegetato per anni ha chiuso i battenti, è stata affidata a una famiglia, accogliente ma abbastanza sbadata da non accorgersi delle sue frequentazioni notturne.

La riunione si protrae per qualche ora, le streghe succhiano sangue miscelato a vodka da una borraccia di plastica e più l’alcool scende, più cullano illusioni di rilancio. Disegnano cieli ronzanti dei loro volteggi, città in balìa del disordine, sabba oceanici officiati da satanassi di ogni credo, ma il XXI secolo non è, forse, quello buono per fare proselitismo. Se un tempo infatti la strega impauriva ma attraeva, ora spaventa e basta. Rimane quindi figura adatta a rivestire il ruolo di capro espiatorio, che l’umanità brancolante nel buio le ha assegnato, ma non è in grado di incarnare alcuno spirito di cambiamento ed emancipazione. Non è detto però che non debba mai venire il giorno in cui, da sotto il noce nella radura perduta, una colonna caotica e vociante di vecchie rimbambite scenderà in città reclamando la propria dignità.