Archivio | febbraio 2021

Il paradosso di Zlatan Ibrahimović o della tecnocrazia

Lo sconcerto è la reazione di Samia Yusuf Omar di fronte alla perfezione meccanica dei corpi delle rivali, quando le vede per la prima volta, tra il campo di riscaldamento e la pista di Pechino 2008 dove si corrono i 200 m piani. C’è Veronica Campbell-Brown in corsia 6, tanto per dire, e Samia, atleta somala che tre anni dopo sarebbe annegata nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Italia, creatura leggera di una Mogadiscio martoriata, è una perfetta sconosciuta: ha diciassette anni, è magra come un’acciuga e un’improbabile t-shirt bianca l’avvolge come una nuvola. Si guarda attorno sbigottita, che cosa mangiano queste? Di cosa sono fatti quei muscoli d’acciaio? Si rende conto subito della propria inadeguatezza fisica, del fatto che lo sport, a quei livelli, è fatto di una meticolosa preparazione atletica in grado di trasformare un corpo in una macchina implacabile. Realizza di colpo che la miseria e la guerra sono incompatibili con lo sport, come con tutti gli altri sogni. Gli interminabili 32’’16 del mezzo giro di pista di Samia sono un urlo che insieme a lei ha valicato gli spalti di quell’arena e risuona vivo ancora oggi. L’urlo di un popolo intero.

La perplessità è invece la reazione di Zlatan Ibrahimović, attaccante svedese del Milan, di fronte alla perfezione meccanica del corpo di LeBron James, cestista statunitense. Ma come, dice il centravanti rossonero, ti ritrovi a saper palleggiare in quel modo, sei fenomenale, e anziché concentrarti su questo, parli di politica? Il riferimento è al coinvolgimento di LeBron James con Black Lives Matter e l’invito rivolto dal calciatore al giocatore dell’NBA è quello di stare zitto e giocare. Proprio come fa lui, Ibra, che infila gli scarpini, tira pedate e non parla di politica. È proprio in questo invito, ovviamente, che può essere ragionevolmente definito il paradosso di Zlatan. Un invito agli sportivi a ridurre la propria umanità a solo corpo: un corpo in grado, è vero, di compiere gesti che sarebbero impossibile per chiunque altro, ma pur sempre solo corpo. È un paradosso perché, sostenendo di non fare politica, Ibra per primo rivolge al cestista un discorso dal deciso valore politico: pensa a palleggiare, a essere corpo, non turbare il pubblico pagante con improvvide dichiarazioni, ma limitati a guardare il conto in banca lievitare e raccogli i frutti di questo sistema che discrimina. Peccato che assecondare la discriminazione, ancorché vergognoso, sia politico quanto contestarla, e presentare come accettabile una posizione ignobile attraverso una patente di apoliticità è pratica vecchia. Buona solo a guadagnarsi un’ospitata a Sanremo.

Storia vecchia, questa della richiesta di tacere, della riduzione dell’umanità a una specifica capacità, competenza, perizia tecnica. A una tecnocrazia dello Zitto e… Zitto e canta! Zitto e suona! Zitto e balla! Zitto, dottore, faccia prescrizioni, non domande! Pensa a guidare l’autobus, va, e sta’ zitto che è meglio! Interessante è anche la versione riservata agli insegnanti, di questo invito, che di solito si articola nella forma del non dovete parlare di politica in classe, ma insegnare la grammatica, come se una grammatica non fosse, in sé, grammatica di emancipazione. Una coincidenza che, ci insegna Samia Yusuf Omar con i suoi 200m per la dignità di un popolo intero, vale anche per lo sport (e, a dire il vero, per quasi tutto) e che quindi rende il Paradosso di Zlatan doppiamente paradossale. La domanda corretta è, infatti, retorica: come si fa a fare sport senza fare politica?

Radical chicken

Dice Yuval Noah Harari, nella diciottesima delle sue 21 lezioni per il XXI secolo, dedicata alla fantascienza, che il successo dell’uomo come specie, nel controllo del mondo, è dovuto alla sua fiducia nelle narrazioni. Così, se gli uomini vanno in guerra lo fanno perché credono in Dio, e credono in Dio perché ne hanno letto nei libri la storia, o l’hanno visto ritratto in qualche diapositiva proiettata dalla maestra di catechismo, bianco per antico pelo o biondo, a seconda della versione. Allo stesso modo, se noi ci riempiamo la casa di carabattole, tipo le candele profumate e i bruciaessenze negli anni dell’università, così come i decanter e i calici larghi da vino negli anni della maturità, lo facciamo perché crediamo nell’ineluttabile affermazione del modello capitalista e siamo fedeli alla convinzione che tanto consumo dia tanta felicità, e ci crediamo perché questo è il modello sostenuto da Hollywood e dall’industria pop. 

Sarà quindi da ricondurre alla pervasività della narrazione hollywoodiana il fatto che, alla faccia dei morsi della pandemia da coronavirus, l’apertura di un nuovo punto vendita della catena regina dell’hard discount in città abbia scatenato un putiferio. Il traffico su via Fleming è in tilt, colpi di clacson, volute di PMI, torsi fuori per metà dai finestrini e pugni agitati in aria a maledire i santi e quello con la Panda che non si muove. Gente ne arriva anche in bicicletta e anche a piedi, così gli automobilisti cominciano a essere invidiosi, perché quelli lì, con le loro buste di plastica pronte da riempire, mica sono imbottigliati, passano davanti. Così, ecco che drappelli di mogli si sganciano dalle automobili incastrate sullo stradone per andare in avanscoperta. Che razza di confusione, nemmeno attorno al Tardini ai tempi di Hernan Crespo. Vuoi vedere che c’è davvero Margot Robbie, tra le corsie, a soppesare attenta una busta di quel buon salamino fucsia? Un tizio parcheggia sulla ciclabile, scende e punta il discount. Selva di clacson, di: “ma dove vai?” Di indignati parmigianissimi: “veVgòòògna!” Quello si ferma, spiana il dito medio di entrambe le mani e ruota su se stesso di 360 gradi, un paio di volte con isocrona solennità. Gli insulti diventano teste che annuiscono in cenni di stima, di sottintesi: “Però, ha le palle il ragazzo!” Lui se ne va, un’uscita teatrale, circonfusa della maschile venerazione del pubblico. 

Dopo mezz’ora sono quasi all’ingresso del parcheggio, chi me l’ha fatto fare di passare di qua? Guardo il piazzale, è tutto decorato a larghe nappe e palloncini gialli, a centinaia, sono appesi ovunque. In mezzo a un’aiuola ci sta anche un clown, anche lui ha un mazzo di palloncini, lo stringe nella sinistra. Verso ogni bimbo che passa, pinzato al polso senza tante cerimonie dalla mamma che ormai vede la meta, allunga un baloon: “Lo vuoi un palloncino, Georgie?”Sudo, ne ho piene le tasche, mi innervosisco, non ce la faccio più e odio tutti. A un certo punto la radio passa Brunori Sas, quella canzone che a un certo punto dice: chissenefrega se è sesso o amore, conosco la tua pelle tu conosci il mio odore. E che poi continua anche peggio. Passa quella canzone e allora, non so se sia la dozzinale grossolanità dei versi o il pensiero dell’odore corporeo di Dario Brunori, davvero, non lo so. Fatto sta che esco anch’io con tutto il busto dal finestrino della Hyundai, agito il pugno tracciando circonferenze nello smog e mi rivolgo a tutti quei lobotomizzati, che mica le leggono le lezioni di Harari per questo secolo dannato: “Ma dove andate? Non vedete che intasate tutta la strada? Branco di buzzurri consumisti? Torma di cafoni tutti uguali. Io non ci devo venire con voi alla Lidl! Io, io… vado all’Esselunga, questa settimana, ecco, ché ho il buono sc… magari la prossima…”

Corona non abbiamo per quel che cerchi invano. Due note sul punto di vista nei romanzi di Tiffany McDaniel

È quella dell’infanzia l’unica angolatura da cui la realtà risulti accettabile: il famoso fanciullo che dà il nome a ogni nuova scoperta, la battezza e la rende materia di un sogno, una favola così evanescente e instabile da poter essere colta solo come intuizione, perché non c’è tempo né modo di afferrarla prima che si volti in incubo. Proprio questa magia scivolosa e incerta è il brodo di coltura della narrativa di Tiffany McDaniel, tre romanzi editi in Italia da Atlantide: L’estate che sciolse ogni cosa, Il caos da cui veniamo, Sul lato selvaggio. C’è in queste storie uno sguardo bambino, che filtra ogni cosa, ogni abominio del mondo: l’orrore colpevole, il rogo delle streghe e i pogrom, la violenza dei giusti, manifestazione tipica maschile e bianca, lo stigma della malattia e della povertà, l’abisso delle dipendenze imposte a un’umanità disperata come realizzazione estrema della coincidenza capitalistica tra vita e consumo, ma anche l’orrore involontario, casuale, la fatalità dell’errore, l’esito atroce di un’azione innocente, inconsapevole, magari mossa dalle migliori intenzioni. 

Sal, un ragazzino nero che dice di essere il diavolo, sa disegnare le cose con la nitidezza spiazzante che solo chi è stato cacciato dal regno dei cieli può avere; Landon, padre imperfetto mangiato dall’amore e corroso dalla violenza dei poveri, lascia in eredità alla figlia Bitty una virtù immaginifica che la renderà scrittrice; Arc, figlia di tossica ridefinisce l’orrore di un’infanzia di abbandono, di ghettizzazione, di violenza pedofila, attraverso racconti in grado di far diventare bello il lato selvaggio della vita. Sono tre esempi dello sguardo sopra accennato, è un punto di vista capace di far fiorire di favole con incontrollabile generosità e avvolgere in atmosfere quasi incantevoli, benché dolorose. Ma è anche un punto di vista che non perdona, non ripulisce la realtà: lo sguardo dei ragazzi di McDaniel è fragile, come lo sono i bambini veri, e non solo non muta i crudi fatti, ma nemmeno bene riesce a trasfigurarli, e il velo che si propone di celare alla vista la siringa, il sangue, il coltello, è purtroppo traslucido. 

Così le parole ingannano, le favole sono sdrucciolevoli: ci consentono magari di guardare in faccia le cose, di provare ad andare oltre l’orrore, ma non di escluderlo. Il dolore è più che intimamente legato alla natura umana, è connaturale ad essa e non è concessa via di fuga. Nemmeno nel futuro, nemmeno in un mondo che non vedremo: una ragazza che arde sul rogo nel XVII secolo può forse pensare che il suo supplizio sia frutto di un’epoca ingiusta, selvaggia. Ma se urla tra le fiamme quando il XX secolo è ormai agli sgoccioli, lo fa nell’angoscia della consapevolezza che non le è concessa giustizia, né redenzione, nemmeno postuma. Siamo state figlie, sorelle e madri, ma nessuno crederà a questo se non dopo aver pensato che eravamo tossicodipendenti, prostitute e individui dalla mente debole.

Il dominio della povertà, il dominio dell’abuso, il dominio crescente della dipendenza, non possono essere trasformati dall’alchemico incanto della scrittura, non è così che funziona. Nel mondo di McDaniel è meglio mettersi l’anima in pace, perché nel momento di massimo strazio c’è sempre un’ulteriore violenza, probabilmente peggiore, pronta a schiantarci, e che inevitabilmente si abbatte su di noi. Non c’è illusione e le favole belle non ammettono il lusso di poter pensare che c’è sempre un motivo per cui valga la pena, in fondo, di vivere. Se non, forse, per le favole stesse, così vane, inaffidabili e ammalianti.

Nota: il titolo e le citazioni in corsivo sono tratte da Sul lato selvaggio

Il cantiere

Il corridoio plurimodale Tirreno-Brennero squarcia l’ecosistema molle del fiume con secca perentorietà. Sarà questa, quella che chiamano transizione ecologica? Una lama fredda di cemento e lamiera nella carne calda della pianura, un camion che si abbatte sulla Graziella rossa di una bimba, il rottame a terra, squassato, la ruota che ancora gira quando tutto ormai tace? Mi affaccio alla recinzione del cantiere che dorme, il reticolato arancione circonda l’area per centinaia di metri, aggrappato qua e là a sostegni rugginosi, uno scarabocchio a pennarello sulla pagina di un volume di pregio.

“Di qua non si può passare professore, c’è il cantiere,” fa il vigilante: “Se vuole arrivare alla ciclabile meglio che sale sull’argine più avanti, vede laggiù? Oltre la chiesa.” Spiana il braccio destro verso un punto indistintamente a Nord, mentre la mano sinistra esplora una rasatura non troppo recente. Guardo prima il dito che indica la direzione e poi lontano. Oltre i ruderi dell’autostrada in costruzione, la campagna, così com’è, immobile, spruzzata di cascine e pozzanghere di ghiaccio trasparente, ci giudica. Gli aironi sono bianchi alabardieri a difesa del ducato, con solenne dignità da Apache; il gheppio nel cielo ha puntato qualcosa, un bastardino misura il viale d’accesso di una proprietà inciampando su zampe troppo corte. 

“D’accordo, agente, passerò di là. Ma non le dà amarezza questo servizio? Questo suo fare la guardia, intendo, acché celermente e senza intoppi procedano questi lavori? Perché meglio avanzi questo divoramento accurato e metodico?” Mi guarda, un po’ interdetto. “Ci pensa, agente – insisto – tra un po’ di anni, nemmeno troppi, verremo qui sotto, i piloni di questi viadotti saranno ormai marci e fluidi puzzolenti percoleranno nei punti di giuntura tra i cementi, e constateremo di aver trascorso le nostre vite a guardare, rassegnati, la scomparsa dell’erba appena spuntata, verde e fragile, dei ciottoli bianchi levigati dal fiume e del profumo dell’acqua d’inverno. È il fallimento, non trova? Di un’intera generazione, la nostra.” 

Scuote la testa, indica di nuovo il Nord, dice che là è ancora bello. “Ma cosa vuole, professore? Deprimersi? Faccio la guardia al cantiere e lo so, servo chi consuma il paesaggio e gli sono fedele perché è il più forte. Del resto, mi permetta, non penserà di fare qualcosa di diverso, lei, nella sua scuola! Anche lei, se ci pensa bene, sta dalla parte del più forte: magari non quando mette un voto o scrive una pagella, ma nel complesso del suo agire, nel contesto di ciò che la scuola rappresenta e che, se ci pensa bene, è perfettamente integrato e funzionale a questo modo… a questo, come l’ha chiamato? Divoramento, già. E cosa ci possiamo fare se la terra è una cartolina stropicciata dalle mani del più prepotente? Funziona così in questo paese di draghi e, per essere onesti, non solo in questo.” 

Raccolgo un casco di plastica giallo spaccato da terra e lo soppeso tra le mani. “Sa, grande divoramento è una delle traduzioni di porrajmos, il termine con il quale le popolazioni romaní indicano lo sterminio perpetrato dalla Germania nazista nei loro confronti. Forse non ci è lecito usarlo in questo modo, certo l’idea la rende bene.”