Archivio | luglio 2013

Altre storie di Monterosso

Rocambolescamente sopravvissuto a un attentato immaginario, il noto giornalista che si fregia d’essere antipatico trascorre ora vacanze profumate di fiori e di limone nella sonnolenza molle di Monterosso al Mare. Eccolo che si sfila da un portone per guadagnare la strada dove, paziente, lo attende grintosa una vettura sportiva dai vetri oscurati. Nonostante i capelli bianchissimi il viso colpisce: ha il pallore di una luna fredda e fa decisamente impressione, qui, tra nugoli di vacanzieri ulcerati dal sole. Avanza ciondolando un po’, forse per il caldo che lo scioglie dentro il completo scuro. Con entrambe le mani si fa schermo davanti agli occhi blu, socchiusi, un po’ per difendersi dalla limpida luce del giorno, un po’ per celarsi agli occhi curiosi dei passanti: è sicuro di avere moltissimi ammiratori tra gli americani e i giapponesi che affollano le Cinque Terre e oggi non ha tempo né pazienza di trattenersi per scarabocchiare autografi e scattare foto. L’Alfa Romeo grigia lo saluta con un ruggito, un uomo scende e gli apre una portiera, lui svanisce inghiottito dai sedili in pelle. Prima che l’auto schizzi via con uno scatto improvviso, il vetro posteriore si abbassa, proprio dal lato del rinomato passeggero. Il volto algido, bianco e scavato dell’Antipatico riempie per un attimo il finestrino. Con sguardo inespressivo accompagna i turisti carichi di asciugamani che sciabattano in infradito di ritorno dalla spiaggia, quindi, repentino, schiude le labbra in un sorriso sottile, che scopre gli incisivi taglienti e rivela due canini lunghissimi e affilati.

Il canotto giallo oscilla pericolosamente sulle onde mentre il bambino, incosciente, si sporge armato di retino per cavare qualcosa dal mare. Uno, due, tre tentativi. Infine, soddisfatto, tira in barca la massa gelatinosa di una medusa e si mette ai remi. Guadagna la spiaggia, tira a secco l’imbarcazione e raggiunge le rocce, dove soddisfatto affida all’inclemenza del sole la preda agonizzante. Quindi, ignorando i richiami distratti di una nonna rovesciata, in stato semicomatoso, sotto un ombrellone, torna al lavoro tra i flutti. Urla: “Adesso uccido tutte le meduse, così dopo puoi fare il bagno!” Il mare è un brodo accogliente per l’enorme sciame che la mareggiata dei giorni scorsi ha spinto sino a qui: decine e decine di celenterati rossicci oscillano nella corrente. Il pomeriggio si trascina lento mentre il cacciatore bambino insegue infaticabile un’impresa impossibile. Quando l’ombra ricopre la spiaggia e stese sulla sabbia non sono restate che tre o quattro persone, lui è ancora lì, caparbio, che spinge sui remi e affonda il retino: la missione è troppo nobile per piantarla a metà e solo lui, che ha fegato per sfidare i tentacoli urticanti, può portarla a termine.

Sarà che a Monterosso, forse per colpa di Montale, dei turbini e dell’attesa di una tempesta che ci possa svelare un qualcosa, le storie che si incontrano mettono voglia di dare un senso, ancorché banale, al quotidiano o sarà che è già agosto e non c’è niente da fare: non puoi che ricamare un po’. Non puoi che constatare le solite verità da quattro soldi. Coloro che vivono avvinghiati alle sottane dei potenti, così privi di sogni e di speranze, del potere non possono che assumere il volto feroce e vampiresco. E a coltivare sogni smisurati, a tentare avventure impossibili, mentre noi grandi sonnecchiamo, non sono rimasti che i bambini.

Le prime due storie di Monterosso sono qui.

Mondi a testa in giù

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
(A. Gramsci)

Non esistono in città studenti fuorisede che, almeno una volta, non si siano prestati a fare da assaggiatori per il locale stabilimento della più importante industria alimentare del Paese. Si viene convocati presso gli uffici dell’azienda in una data e a un’ora prefissata e si viene dirottati in una sala dove vengono somministrati prodotti da recensire, poi, tramite un questionario. Si può essere, per esempio, selezionati per tastare la fragranza del biscotto ai cereali e allora tocca mangiarne due campioni: uno, si scopre successivamente, appena scartato e un altro vecchio, magari della settimana prima o del mese prima. “Qual è quello fresco? Quello fragrante e profumato o quello stopposo e ammuffito?” Chiede il questionario. Si crocettano le risposte del caso e quindi si torna a casa, dove si attende con fiducia il pacco premio che ricompensa gli assaggiatori: si tratta di uno scatolone contenente qualche chilo di pasta (di solito quella delle misure più assurde), merendine (quelle spugnose alla carota che non piacciono nemmeno al cane), sughi (al sapore di fabbrica). È un’esperienza tutto sommato interessante e, cosa non di poco conto quando si è studenti squattrinati, riempie la dispensa.

Stamane, scodellando per il cane una scatoletta di paté al tonno, mi sono accorto di un piccolo logo, posto su un angolo della stagnola: cruelty-free, non testato su animali. È per questo che mi sono ricordato degli universitari assaggiatori. Ho riflettuto infatti sul fatto che, se non sono gli animali a provare le scatolette per cani, devono per forza farlo degli umani. Quindi esisterà, da qualche parte, un salone dove a gruppi di ragazzotti vengono servite porzioni di mangime accompagnate da questionari: “quale paté proviene dal barattolo aperto la settimana scorsa?” A pensarci si tratta di una cosa davvero incredibile, ma non può essere altrimenti, a meno che non esistano macchinari creati appositamente per testare il cibo per animali. L’immagine di un giovanotto che azzanna un boccone di manzo ai piselli per cani, tutto composto e con un largo tovagliolo infilzato nel colletto della camicia a proteggerlo dagli schizzi di gelatina, trasmette l’idea che ci siano mondi costruiti all’incontrario, a testa in giù.

Ci sono situazioni che paiono tanto assurde da risultare quasi incredibili, ma che tuttavia esistono e non sono poi meno reali di quelle che ci risultano familiari. Questa dei degustatori di mangimi è una, ma ve ne sono innumerevoli. Un’altra, per esempio, la ritroviamo sulla rinomata spiaggia di Forte dei Marmi. In questo periodo di caldo eccezionale, i venditori ambulanti erano soliti riposarsi in un’area dell’arenile posta sotto un pontile, una risicata zona d’ombra vitale per questi infaticabili camminatori. I bagnanti del Forte, che con tutta evidenza amano comprare il tarocco, ma non gradiscono la vista di capannelli di venditori sfiancati dalla fatica che si riprendono all’ombra del pontile, si sono però lagnati con il Comune, che ha subito provveduto a impedire con una recinzione l’accesso all’ombra. Ecco: esiste un mondo all’incontrario dove a un uomo schiantato dal sole viene negato il ristoro di un po’ d’ombra. Ed è un mondo d’eccellenza, dicono. Il sindaco PD Buratti anticipa eventuali critiche con un piagnucolio: “la rete serve per garantire il decoro“. Come se i poveri non fossero decorosi. Non sa, Buratti, che i poveri sono decorosissimi? Che è la povertà ad essere indecente, ed è quest’ultima che va combattuta, non gli affamati? E ancora: “… il provvedimento non è nella maniera più assoluta indirizzato a lasciare sotto il sole cocente gli extracomunitari che vogliono riposarsi. Se così fosse, dovremmo allestire mense a cielo aperto o dormitori in spazi ombreggiati e consentire ogni genere di comportamento, fra i quali potrei citare a mo’ di esempio, l’imbrattamento dei muri, per dar sfogo alla libertà creativa di qualcuno.”
Già, come se imbrattare i muri e cercare riposo all’ombra fossero la stessa cosa.

A dar man forte al sindaco anche il deputato democratico Gelli, che sentenzia: “Una realtà di eccellenza come la Versilia che vive innanzitutto di turismo non può permettersi di trascurare le proprie spiagge”. Bisognerebbe ricordare a Gelli come in una realtà di eccellenza non esistano uomini lasciati a stramazzare di fatica e di caldo. Non si tratta di buonismo, si tratta di senso di appartenenza al genere umano. Le reti del Forte sono come le panchine nei parchi della Treviso di Gentilini, levate per evitare che ci si siedano i migranti. Sono come le parole di Calderoli, sfacciate e razziste. Quindi, cari amministratori che negate l’ombra agli africani, e cari esponenti del Partito Democratico che vi guardate bene dal prendere posizione, non denunciate il razzismo altrui se per primi lo praticate. Non basta che vi diciate democratici, o che vi facciate schermo di futili motivazioni da realpolitik paesana, annaspando per distinguervi dagli xenofobi padani. Non fate che pena.

Non siamo niente male

Quando sfilano contro il tramonto così affiancate, nel tripudio di nastri e lacci di cuoio, verniciano la passeggiata Morin di smalto fiammante, accendono i riflettori sullo stanco trantran della Spezia risvegliando umori e passioni. Il giovanotto stravaccato sulla pancaccia di pietra in posa melliflua si scuote e le apostrofa con un fischio leggero, rollando una sigaretta; le teste dei mangiatori di muscoli al banco dei mitilicoltori si sollevano e si voltano come un’onda al loro passaggio, le conchiglie sospese a mezz’aria. Portano nomi importanti, Lucrezia, Matilde e Antonietta, e non sono mica tipe qualunque, lo si capisce al volo. C’è la campionessa italiana di bellezza, che è anche la più giovane e la più maliziosa, con quello sguardo diritto e sfrontato; c’è Matilde che si fregia del titolo mondiale, sempre di bellezza, e detto tra noi è un vero bocconcino; infine Antonietta, che non è solo un oggetto: infatti benché vicecampionessa di bellezza è stata insignita anche del titolo di campionessa in lavoro, nella specialità della ricerca di animali feriti: nessuno come lei ti segue una scia di sangue nel sottobosco dell’Appennino.

La padrona le porta a spasso fiera, a petto in fuori, gli occhi gonfi di orgoglio: “La vita, la mia vita non sarebbe la stessa senza di loro, senza i miei bassotti!” “Come la capisco signora, io, senza di lei, non riesco a vedermi…” Tiro uno strattone alla mia bastardina per interromperla mentre si gratta furibonda dietro un orecchio, proprio lì, proprio al cospetto delle miss Bassotto che sfidano altere lo struscio serale. “Senta un po’, signora,” le chiedo curioso: “Ma com’è che fanno a stabilire che una è campionessa d’Italia e quell’altra del mondo?” Lei alza gli occhi al cielo, chissà quante volte l’ha già dovuto spiegare, quindi attacca paziente a parlare di misurazioni: un certo peso per una tale altezza al garrese, un certo giro vita, gambe più o meno arcuate, ciuffi di pelo che mancano o che avanzano, una certa lunghezza del cranio, una fronte spaziosa ma non troppo, orecchie morbide, code eleganti, portamento e attitudine e scioltezza nel mettersi in mostra e mille altre lombrosiane amenità. “Ma va’? Ma davvero?” “Sa che in Spagna e in America adesso va molto operarli per togliergli le corde vocali?” Mi dice la signora e aggiunge subito: “Ma io sono contraria!”

Mi stupisco e ragiono che non è possibile, che se tutti sapessero che i cani sono misurati e giudicati in quella maniera e che per essere sottoposti a tali selezioni sono incrociati e cresciuti secondo rigidi criteri, spesso operati e costretti a regimi alimentari e ad allenamenti assurdi, allora ci sarebbe un moto di indignazione e se ne parlerebbe in TV, per dire a Studio Aperto o sul Due, in una di quelle trasmissioni pomeridiane dove tutti piangono e si strappano i capelli. Sono cani, direbbero in molti, perché non lasciarli rincorrere in santa pace le loro puzze agli angoli delle strade? Poi penso a un video che è girato molto in rete, un filmato dove Fiorello e un gruppo di uomini al bar pontificano su quanto sia inopportuna la cancellazione dai palinsesti Rai del concorso Miss Italia: grande opportunità per le ragazze di mettere in mostra il fisico, certo, ma anche l’intelligenza, di sicuro una gara innocente che non ha mai fatto male a nessuno. Sarà, ma in merito ho i miei dubbi e poi che cosa ne possono sapere Fiorello e i quattro amici al bar di quello che viene dietro a un concorso di bellezza? Di sacrificio e di dolore? Perché ne parlano? Lascio le bassotte alla loro passeggiata, mi allontano e guardo la mia cagnolina caracollarmi dietro, trascinata dal guinzaglio, la faccia appiccicata ai ciottoli della pavimentazione in cerca di chissà cosa: proprio un esempio di cane sgraziato. Certo, le gare di bellezza non fanno per lei, anche se vi assicuro che, tutto sommato, non è niente male.

Il cantiere degli animali

Lo sventramento del piazzale della Stazione procede a pieno ritmo, ma una recinzione di rete rivestita da teloni in plastica verde ne cela le dimensioni ai passanti. In alcuni luoghi però, la curiosità degli anziani è stata così forte che sono stati creati decine di fori nella rete, attraverso i quali spingere la testa per affacciarsi su quello che, senza ombra di dubbio, è un cantiere davvero mastodontico, il sogno di ogni pensionato patito di lavori in corso. Emiliano B, naturalmente, non resiste alla tentazione di sporgersi approfittando di uno di questi buchi. Due nastri paralleli d’asfalto nerissimo tagliano cumuli di terra per andare a perdersi chissà dove nelle viscere della città, decine di mezzi cingolati manovrano e ingarbugliano i propri tragitti, portando a spasso nel fango, come formiche le loro briciole, pale gialle di ogni forma e dimensione immaginabile. Accatastati qua e là, pronti all’uso, travi, piloni, plinti e contrafforti in cemento armato. Una gru solleva quintali di materiale grigiastro con lo slancio e la leggerezza di un airone. “Ha visto quella gru?” chiede Emiliano a un tizio appena affacciatosi a un foro vicino che, da come strizza gli occhi per correggere la miopia, deve essere mezzo cieco, praticamente una talpa: “Non le ricorda un airone?” “Mah!” Fa il tizio: “Beh…” Indugia: “Non saprei. Lei dice un airone? Lo sa che quello là, quello dell’orango, dice che il premier assomiglia a un airone, per come gli riesce di cavarsela a saltelli, grazie a quelle lunghe zampe, sulla melma.” Mantenendola nell’apertura tonda della rete, B scuote la testa, vagamente consapevole del rischio di lacerarsi il collo con gli spuntoni rimasti dove i fili di metallo della recinzione sono stati tranciati. “No, non l’ho sentito. Sono rimasto alla storia dell’orango. Sa? Non è che le esternazioni di quello là siano il primo dei miei interessi… Certo che qui, tutti con la testa infilata qua dentro in questa maniera, sembriamo pronti per essere ghigliottinati. Non trova?” Sghignazza in un gorgoglio, mentre goccioline di saliva piovono sulle teste di un gruppo di operai che lavora di sotto: “Eh, proprio! Adesso zacchete! Restiamo qui a guardare la nostra zucca che rotola fin laggiù. Anzi, mi sa che non le vediamo mica. Certo che ne farei cadere di teste, oggi come oggi…” “Prego?” “Oh, la testa del ministro, quello che quello là dice assomigliare a una rana, per esempio, la voglio servita su un piatto d’argento con contorno di melanzane grigliate. Ma come si fa, dopo questa storia del favore al dittatore? Che poi ci assomiglia davvero, a una rana dico, il ministro… e poi anche la testa di quello là, chiedo, che personaggio… ma come si fa?” Emiliano ascolta lo sfogo dell’anziana talpa: “Ma vorrebbe proprio decapitarli fisicamente?” “Oh, certo che no, vede, io parlo per metafore, che vuole, sono un vecchio pacifico e pacifista…” “Trovo ammirevole, sa, la sua intenzione, ma mi pare un’utopia, non mi pare possibile decapitarli metaforicamente.” “Lei dice? Perché?” “Mi pare sia necessario,” spiega Emiliano: “Per decapitare un uomo, anche metaforicamente, che questi possieda una testa, seppur metaforica, da poter spicciare dal collo. E invece questi soggetti di cui lei parla, è del tutto evidente, sono privi di testa e quindi lei non la può chiedere come invece sta facendo ora a gran voce.”

Io, venditore di bracciali

Nel mercato del nord mi sono intristito.

Nel mercato del nord ho perso te e il mio sud.

Gëzim Hajdari, da Stigmate

070913_2004_Iovenditore1.jpg“Le strade, le strade! Con tutte le strade che, a sentir loro, hanno costruito in Africa, questi italiani potevano almeno pensare a lastricare un passaggio anche sulla stradannata spiaggia di Riccione!” rifletto ansimando, mentre spingo un passo dopo l’altro, con i piedi che sprofondano nella sabbia, i granelli che si infilano nei sandali di gomma a dare il tormento alle vesciche, il sole che mi schiaccia per terra e la mezza valigia che funziona da espositore per occhiali da sole, bracciali e collane che pesa il doppio a ogni ora che passa. Si vende poco, quest’anno. La Riviera non è affollata come le scorse estati e la gente che c’è, anziché comprare, fa un sacco di domande oppure soppesa la merce sul palmo aperto della mano, o la guarda in controluce, per poi dire: “Ci penso… Ripassi anche domani, no?” E così ne devo macinare di chilometri di stabilimenti di cabine e ombrelloni colorati per vendere qualcosa. “Scusa, vedere?” Mi fa un tizio seminascosto dietro un numero della Settimana enigmistica, spalle strette e pancia larga, occhiali tondi e qualche ciuffo di barba brizzolata: “Tu vendere solo braccialetti e collanine? Non avere orologi?” “No, niente orologi…” mi giustifico: “non vanno più, quindi non ne tengo. Sarà che l’ora la legge anche sul telefonino, l’orologio è diventato un accessorio di lusso, o quantomeno un oggetto chic, non una cosa che si compra in spiaggia. Almeno credo…” Abbassa la rivista, la bocca che disegna lo stupore in una O: “Ah! Tu parlare italiano?” “Certo!” rispondo sorridendo: “L’ho studiato a scuola e poi, oramai, sto qui da sette anni.” Contrae quanto gli resta degli addominali e si mette a sedere sull’asciugamano, lo sforzo e la pena scritti in un smorfia di dolore: “Ma pensa! E da dove venire, tu?” “Vengo dalla Somalia, sa dov’è?” “Certo, certo! Ma tu essere proprio di Nairobi, o venire da campagna?” “Vengo proprio dalla capitale,” rispondo: “la mia famiglia vive ancora lì, a Mogadiscio. Un tempo era la citta più bella dell’Africa, la Perla dell’Oceano Indiano, ma la guerra l’ha sfregiata in maniera irrimediabile.” Non mi ascolta più, accarezza i bracciali di vetro colorato, ne stacca uno e lo analizza in controluce allungando in aria il braccio peloso: “Bellini questi! Da dove venire? Da Africa?” Ci penso un po’ su: “Vede, quei frammenti colorati, non sono altro che i ninnoli importati in Somalia dagli italiani, quando il mondo era diviso in Nazioni Progredite e Colonie. Gli alfieri del Progresso rifilavano ai nostri vecchi affamati questi vetrini luccicanti, spacciandoli per oggetti preziosi, per cose di valore. Come contropartita si prendevano oro e petrolio. Adesso da noi non rimane più nulla e noi giovani siamo costretti a emigrare, a vivere senza un tetto, a soffrire ogni giorno trascinandoci in mezzo alla gente spaparanzata sui lettini, che sonnecchia o scola granite e birra fredda. E lo sappiamo pure, di rompere un po’ le scatole, quando invadiamo il vostro spazio con le nostre valigie di ciarpame, ma che volete? Dobbiamo guadagnarci il pane e non abbiamo altro modo, per farlo, che restituirvi i vostri maledetti vetrini.” Non mi segue, il tizio. Fruga nei boxer rossi alla ricerca di qualcosa, spero il portafogli, o forse solamente si gratta, dato che poi scrolla la testa: “Mah, dici? Secondo me li fanno in Cina”. Lo fisso e mi rassegno: “No, no essere di Cina, venire di Africa, di mio paese Nairobi!” “Sicuro? Non ci credo mica tanto…” Borbotta e, finalmente, tira fuori il portamonete.

La risposta dell’ambulante somalo sulla provenienza dei bracciali è reale, la racconta un lettore del Secolo XIX in una lettera al quotidiano pubblicata domenica 7 luglio. Tutto il resto è fittizio.

Soluzioni

Se esiste un luogo dove noi italiani ci sentiamo in dovere di urlare ininterrottamente per ore, dando fiato alle trombe della nostra onniscienza, questo è la spiaggia. Qua e là per gli accampamenti di tende parasole, montate a proteggere dal calore bebè, cani, sandali di sughero, risi freddi, birre e pesche ammaccate, uomini agitati illustrano a mogli poco interessate il funzionamento di un qualche marchingegno, si prodigano a convincere amici sospettosi della bontà della cucina del tal ristorante, imprecano contro la crisi impastandosi i peli del petto di crema solare. Il tutto, sempre, ovviamente, a massimo volume. Tuttavia, quando arriva l’estate, è d’obbligo riscoprire il piacere, che l’internet ci ha oramai portato via, di leggere un quotidiano. Così spilucchi tra i fogli del Secolo XIX di oggi che la brezza ligure, tesa come sempre, ti stropiccia in mano: un’interessante riflessione di Franco Cardini su un monumento a Cristoforo Colombo e l’imbarazzante posizione europea sul caso Snowden, le trascrizioni integrali dei dialoghi del comando della Jolly Nero e la solita spruzzata di violenza di provincia. Infine, nello sport, il passaggio della punta Gabbiadini alla Samp. A chi ti ispiri? Chiede il giornalista. A Bobo Vieri, risponde il neoblucerchiato. Poi qualche domanda alla sorella maggiore dell’attaccante: a chi assomiglia tuo fratello Manolo? Ha il fisico di Ibrahimović, ma gioca come Ilaria Mauro. La fotografia che commenta le dichiarazioni di Melania Gabbiadini è, naturalmente, un Ibra con le braccia alzate al cielo. Non importa che l’affermazione interessante sia che Gabbiadini giochi come Mauro, centravanti della nazionale italiana femminile, la fotografia è quella del personaggio famoso, è l’immagine scontata, la più ovvia. Perché noi italiani, rifletti, oltre a berciare in spiaggia, amiamo le soluzioni semplici, le strade spianate, il rassicurante trantran quotidiano che ci conforta e ci bisbiglia: è tutto a posto, va tutto bene, sai già tutto, niente di nuovo all’orizzonte. I media, nel paese a forma di stivale, ci coccolano e ci danno sempre ragione, vengono incontro ai gusti del pubblico, che poi forse è semplicemente interpretare la legge del mercato. Mentre ti attorcigli sull’asciugamano mettendo in fila questi ragionamenti, un vicino d’ombrellone, roteando le braccia e strombazzando a tutto spiano, disegna nell’aria quella che, a detta sua, è la soluzione definitiva a ogni problema, dalla disoccupazione alla criminalità: “Bisogna entrare con un Caterpillar in Parlamento e ucciderne almeno cento, perché cambi qualcosa. Poi, comincia a mettere duemila pulotti per strada e vedi che le cose iniziano a girare!” Lo grida forte, lo urla a tutti, quello che bisogna fare. Ammazzare un decimo dei parlamentari a fucilate, dopo essersi recati a Montecitorio con la ruspa e riempire le strade di poliziotti: praticamente una cosa in stile Pinochet. Insomma a modo suo anche il vicino, come il giornale, sceglie la strada più semplice e i suoi amici, come i lettori del giornale, annuiscono compiaciuti. Forse, ti dici, quel suo urlare forte non è solo cafonaggine, è anche la convinzione di stare dalla parte della ragione, della giustizia. Perché chi sa di avere ragione ama farsi sentire, sente di esserne in diritto. Sarà per questo che chiudi gli occhi, respiri a fondo l’aria salmastra e cancelli tutte le voci, tutti i rumori. Sarà perché ti piace stare dalla parte del torto che preferisci stare zitto e ascoltare la risacca, le risate dei gabbiani lontani, il soffio del vento e spingerti oltre, fino a fingerti nel pensiero sovrumani silenzi.