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Da Mayor/Il Sindaco

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Qui, tra i muri graffiati delle case del Quartiere, Marino, il pensionato che abita sopra di me, è così popolare che tutti lo chiamano Il Sindaco. Assomiglia, in effetti, all’attaccabottoni alcolizzato di Fa’ la cosa giusta, il capolavoro di Spike Lee, soprannominato appunto Da Mayor. In comune hanno alcune passioni, come il gusto per il Tavernello succhiato direttamente da un foro nel cartone e per la conversazione molesta, ma bisogna ammettere che il primo cittadino nostrano è un po’ meno sfaccendato del Mayor. Per anni macellaio, il Sindaco ha chiuso bottega quando tra le clienti più affezionate è iniziata a circolare la voce che la sua specialità, costate vermiglie altre tre dita, non fossero di origine bovina, ma prodotte con una stampante 3D in un capannone di Orzinuovi. Ma decisiva è stata anche l’apertura di Esselunga, che gli ha fatto una concorrenza spietata a colpi di supersconti e cassieri abbonzati e palestrati. Ormai in pensione, si dedica a una lunga serie di occupazioni che in Italia restano tutt’oggi popolari, tipo passare avanti agli altri nelle interminabili code in posta, gettare cartacce e mozziconi nelle aree verdi e molestare incaute passeggiatrici solitarie, magari con il vecchio numero di aprirsi improvvisamente l’impermeabile rivelando una pingue irsuta nudità.
A poco a poco, dal rappresentare per noi vicini semplicemente un incontro saltuario, e non sempre gradito, Il Sindaco è riuscito con le sue imprese a intrufolarsi nelle vite di tutti noi: non passa giorno, giuro, che non ci imbattiamo in qualcosa di quantomeno evocativo della sua esistenza. Un’esperienza da mettere alla prova la sanità mentale di chiunque. A dire la verità, però, tutta questa popolarità non se l’è cercata da sé, una bella colpa ce l’hanno i media. Sono stati gli anziani, colonna portante della voce più potente del Quartiere, Radioscarpa, a fare sì che il suo nome assumesse per noi tutti l’ossessività del mantra: non ti dico cos’ha fatto Marino… Hai sentito del Sindaco? Che schifoso! L’ha fatta di nuovo fuori dal vaso. Un contributo importante è venuto anche dal curato, che ha interrotto l’omelia domenicale per puntarlo con il dito e domandargli: “Oh, ma te, chi diavolo ti ha invitato?”
Ma per tornare a noi qui del Quartiere, diciamo che i mille vizietti del Sindaco sono stati dapprima un diversivo, poi sono divenuti un fastidio, quindi un problema, poi una maledizione. Infine, gradualmente, abbiamo iniziato ad apprezzarne un imprevisto potenziale positivo per noi, che potremmo definire come una specie di funzione autoassolutoria del linciaggio. C’è sempre lui, peggio di noi. Teniamocelo sempre bene fisso in mente, Il Sindaco e che il suo nome circoli incessante, rimbalzi impazzito di bocca in bocca. Così che possiamo starcene belli tranquilli e fare tutto quello che ci passa in mente.
Oggi, vedendo una vecchietta attraversare sulle strisce, le ho inchiodato a un centimetro, sono uscito con tutto il torso dal finestrino dell’auto e le ho urlato: “Oh vecchia rimbambita! E levati dalle palle!” Alla mia compagna che mi guardava con una punta di sorpresa ho opposto: “Ma hai sentito che ieri, in chiesa, Marino ha ruttato dopo aver inghiottito l’ostia?” “Ah, ah! Che ridere! E non era neanche invitato. È proprio un balordo!” Ha ribattuto lei approfittando della frenata per svuotare il portacicche stracolmo sul marciapiedi. Sono ripartito con una sgommata.

Non gridate più, non gridate (dalle colonne dei vostri giornali)

CGiovanni non riesce proprio a capire come diavolo metta il tempo, oggi. Infatti certe lame bianchissime di sole bucano le nuvole scure, recando così un brivido di indecisione nella sua routine di pensionato. Una sosta al giardino con letta al giornale su una panchina di legno verniciato, o tornarsene a casa, poggiare le chiavi sul tavolino all’ingresso e affondare nell’ecopelle marrone della poltrona nuova? L’aria è leggera e Giovanni non sta mica male, tutto sommato, all’aperto. Incrocia le gambe sulle listarelle della panca che guarda, oltre una pista di pattinaggio in cemento, la parete esterna della palestra della scuola media. L’hanno pitturata di nuovo, pensa, di un giallo paglierino tremendo, uno strato spesso, dato alla bell’e meglio, a coprire scritte e graffiti. Il comune è puntualissimo, constata, quando si tratta di ripulire i muri. Sbadiglia, srotola il giornale. In prima pagina c’è la foto di un bambino morto. È un bambino curdo, ha tre anni. È un profugo, un povero, già. Perché i cadaveri dei ricchi morti d’occidente mica li sbattono così, nudi e crudi in prima pagina, senza nemmeno un lenzuolo sopra, senza una cassa avvolta in qualcosa o coperta di fiori o smaltata di bianco. La salivazione si secca, che roba è mai questa Giovanni? C’è un pezzo, di fianco alla foto, del direttore del giornale. C’è un pezzo che spiega il perché della scelta di pubblicare l’immagine di Aylan, 3 anni, morto annegato mentre con altri profughi cercava di raggiungere l’isola greca di Kos. Dice, l’articolo del direttore, che ha pubblicato la foto per rispetto del bambino, perché questo rispetto pretende che tutti sappiano, che ciascuno di noi si fermi e prenda coscienza di ciò che succede a pochi chilometri dalle nostre vite. Giovanni lo sa, che le coscienze non si risvegliano per una foto. La saliva non torna. Non parlategli di Kim Phuc, la bambina vietnamita scorticata dal napalm. Non raccontategli favole: le guerre non finiscono per le foto di bambini ammazzati. Le foto di bambini ammazzati lavano le coscienze: la commozione è un balsamo. L’orrore un anestetico. Per questo un’immagine tremenda fa vendere di più, diventa virale in rete, riempie le bocche putride dei governanti di parole toccanti, allineate con cura dai professionisti della comunicazione. I bambini, invece, quelli continuano a morire. Nelle onde fredde del Mediterraneo o sotto le bombe, abbracciati alle gambe dei genitori, facendo scudo col proprio corpo a una bambola, tirando calci a un pallone o inseguendo un aquilone su un campo minato. Giovanni molla il giornale sulla panca, si guarda intorno. C’è un ragazzo con lo zainetto seduto sullo skate che smanetta col telefonino. Lo punta deciso: “Ciao, come ti chiami?” Quello solleva lo sguardo incuriosito: “Ahmed… Cosa c’è?” “Uh, niente, mi chiedevo se mi potevi prestare una di quelle bombolette di vernice che tieni lì dentro, nello zaino.” “Che cazzo dici zio? Non tengo nessuna bomboletta…” “Ma va’! Chi vuoi che sia a scarabocchiare il muro della palestra in questo quartiere di nonni? Tu e i tuoi amici, no? Tranquillo, non sono mica un vigile. Me ne presti una?”
Domani un operaio del comune, armato di secchio di pittura gialla e di una pennellessa ricoprirà una scritta fresca, tutta in nero, un po’ incerta: Cessate d’uccidere i bambini morti.

Dare i numeri

sneijderLa radio, di mattina presto, ronza in un grigio uniforme, perfettamente in tinta, in questa stagione, con il cielo d’Emilia. Due cronisti assonnati cianciano del dibattito TV tra i due candidati alle primarie. Declamano dei voti: “Lucia Annunziata dà 8 al Sindaco e 6 a Bersani, Freccero 8 al primo, 7 al secondo…” Interviene un ascoltatore in diretta: “Chissenefrega,” dice “del giudizio dell’Annunziata?” Già, non ha tutti i torti: “Chissenefrega,” aggiungerei “di valutazioni appioppate così, senza criterio, a sentimento?”

Mentre presto attenzione a non tamponare una betoniera, immagino cosa succederebbe se affibbiassi, nella valutazione di un compito in classe, dei voti a casaccio, senza prima fissare criteri, stabilire parametri, affidarmi a griglie. Vedo Quattrocchi, là, nell’ultima fila, che fissa il foglio aggrottando la fronte: “Pvofessove, nella penultima vevifica, pev due evvovi di ovtogvafia, mi ha abbassato il voto di un punto. Questa volta, un solo vefuso mi costa ugualmente un punto…” “Ah sì? Qual è l’errore?” “Ho scvitto pescie, con la i…” “Beh, te la sei cavata bene, direi. Ti lamenti per un punto in meno? Meriteresti una pedata nel sedere!” E poi Morticia, qui, nel banco davanti: “Ma prof, ma ho scritto cose molto belle, cioè, sulla morte e l’oscurità che vabbé, sì, si sparge sul pianeta! Cosa mi ha dato in contenuto? Perché non l’ha scritto, come al solito?” “Vedi, Morticia, poniamo che le tue riflessioni siano in qualche modo interessanti, non c’entrano comunque una cippa con il tema sull’impronta ecologica. E la griglia stavolta non l’ho utilizzata, perché nemmeno quelli della radio la usano!” “Ma se è lei, prof. B, che ci dice sempre che è un nostro diritto sapere come vengono dati i voti, e poi che i nostri diritti dobbiamo difenderli con i denti, e con le unghie…” ulula lo Sfaccendato sulla destra, con la bocca piena di una merendina fucsia.

I ragazzi hanno ragione: se una valutazione è assegnata senza criteri stabiliti ed esplicitati con chiarezza, non ha alcun valore. Come i voti alle prestazioni dei calciatori sulla Gazzetta del lunedì, buoni solo per il Fantacalcio e per i tifosi, che hanno così modo di incavolarsi o di gongolare. Ti fermi al bar, apri il giornale inzuppandone un angolo nella schiuma del cappuccino e constati che Sneijder, per dire, ha fatto pena. Quindi vai al lavoro sollevato, o, se sei interista, incavolato.

A pensarci bene, i numeri assegnati da commentatori e analisti politici a Renzi e a Bersani dopo il dibattito tv, perseguono, in fondo, lo stesso obiettivo delle pagelle ai giocatori: intrattenere e solleticare il tifo. Perché la politica è ridotta a questioni di forma e di appartenenza e il dibattito pubblico è svuotato di contenuti, ma altamente spettacolarizzato. Così, l’elettore tifoso non riflette, non valuta, non approfondisce: si affida al parere di un’auctoritas, più o meno impresentabile, che gli dica brevemente, con un numero, come si è comportato il suo beniamino nell’ultimo match. Quindi se ne va al lavoro, turbato o confortato, poco importa.

I prodigi della robotica

Il muso del tizio di là dal vetro è quello di un formichiere. Pigia sulla tastiera con un indice grassoccio per digitare il nome della località che ho appena pronunciato, poi, con gli occhi stretti a fessura, scruta lo schermo e mi legge l’elenco delle soluzioni di viaggio, il tono che dice: ”Ma proprio in treno ci devi andare?” Scelgo il treno, un regionale, e mi preparo alla bufera che seguirà la mia ulteriore richiesta. Mi schiarisco la voce, sorrido, quindi azzardo: ”Ecco, ci sarebbe anche il cane… come posso fare?” Afferra il cellulare, ruota di tre quarti sul sedile, parla concitato e gesticola. “Ha chiamato a casa,” penso “per raccontare dell’incredibile rottura di palle rappresentata dal sottoscritto.” Pochi istanti e si rivolta, mi schiaffa due tagliandi sotto il naso e bofonchia una cifra incomprensibile. Grazie al cielo un display mi viene in soccorso informandomi della spesa e mi risparmia dal chiedere al bigliettaio di ripetere. Mollo i soldi giusti e scappo.

Mi sono rivolto allo sportello a causa di un guasto alla biglietteria automatica, altrimenti non avrei avuto dubbi, non sono mica matto: la macchinetta è più rapida e alla fine della transazione mi augura: “Buon viaggio”. Inoltre sono sicuro che, anche se non sono ancora in grado di coglierlo, la macchina mi sorrida con cortesia.

Mi sento in colpa, un poco, per questo mio feeling con l’automatico, con i posti di lavoro che se ne vanno e molte figure tradizionali che scompaiono a causa della tecnologia: bigliettai, casellanti, benzinai… a cosa serve un benzinaio? In fondo il processo è inarrestabile. Mi sento in colpa e mi chiedo: “Per quali mestieri varrà, questo discorso?” Proprio ieri, passando di qui, mi sono imbattuto in un articolo del Sole 24 ore: Il tablet? Meglio di una maestra. Il titolo, per la verità è fuorviante, messo lì per fare un briciolo di sensazionalismo e per offendere una categoria, moda particolarmente in voga di questi tempi. L’articolo infatti espone i risultati di una ricerca e illustra brevemente un paio di apps didattiche, ma davvero non spiega perché sarebbe preferibile affidare il proprio figlio alle cure di un computer, anziché a quelle di un’insegnante in carne e ossa. Anche perché trovare gli argomenti per sostenere una tale idiozia non mi pare impresa da poco.

Una scuola con insegnanti meccanici è stata immaginata da P. Dick in Noi Marziani. Su Marte, robot antropomorfi, che indossano nomi pesanti, come Isaac Newton e Mark Twain, intrattengono gli allievi con appassionanti escursioni nei territori delle varie discipline. Sono programmati alla perfezione: prevengono le domande, governano i cali d’attenzione, stimolano le giovani menti all’osservazione del mondo da prospettive particolari. La scuola marziana di Dick, però, ha un difetto: i disabili non la possono frequentare, vengono allontanati, quindi rinchiusi in centri specializzati. Una scuola che esclude non è una scuola, quindi la scuola non può essere robotizzata nemmeno per Dick.

Tornando, per chiudere, alla sostituzione di lavoratori con macchine, va segnalato come la sperimentazione in questo campo, nonostante le difficoltà, sia sempre più audace. Il tablet insegnante è una fesseria, è vero, ma abbiamo vecchi mangiacassette riciclati come giornalisti in numero così abbondante da inzuppare le redazioni di tutte le principali testate del paese.