Archivio | agosto 2012

Letture inconfessabili

Ci sono letture che non possono mancare nel curriculum di un buon letterato, classici che curvano la storia quanto rivoluzioni o conflitti, libri che hanno cambiato il mondo, o almeno la lente attraverso la quale lo osserviamo e interpretiamo. Dante, Shakespeare, Goethe, per dire, ma anche i grandi romanzieri russi, e francesi, americani, i tragici greci, i comici, i latini, e poi, a casaccio: Cervantes, Dickens, Omero, Villon, Baudelaire, tutti i nomi inclusi in quell’opera irritante che è Il canone occidentale di Bloom, e poi, dato che siamo italiani e veniamo dal Risorgimento e dalla Resistenza, tutto Foscolo, Leopardi, Manzoni, ma anche Calvino, il neorealismo, e vogliamo saltare Montale, Saba, Carlo Emilio Gadda? E anche così restiamo comunque letterati bianchi, maschi occidentali: dobbiamo spingere un po’ più in là la linea del nostro orizzonte, l’Oriente. Scrive Calvino che

I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “sto leggendo…”

E però, lo confesso, protetto dall’anonimato della rete, io, Emiliano B, ecco… un sacco di questi libri non li ho letti. Me ne vergogno, profondamente. Me ne vergogno eppure millanto, anche un po’ per costrizione “sociale”, frequentazioni letterarie inesistenti. L’età aiuta, metto in soggezione i giovani con i fondi di bottiglia attraverso cui filtro la carta stampata e tuono, alla maniera di un mio vecchio maestro universitario di letteratura: “Non siete donne, non siete uomini, se non avete letto tutto Balzac!” Ma un po’ di senso di colpa c’è, e se anche lo stesso Calvino aggiungeva

Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint- Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i cicli romanzeschi dell’Ottocento sono più nominati che letti

mi sento in dovere di mettere qualche pezza alla mia ignobile ignoranza. Ho cominciato qualche anno fa, sulle malandate vetture della linea 14, mentre affogavo nella nebbia della bassa parmense per raggiungere una scuola in decadenza. Mezz’ora l’andata, mezz’ora il ritorno, più le attese alla fermata: una trentina di pagine al giorno. Il rischio di incrociare qualcuno ed essere beccato a leggere un’opera imprescindibile, però era troppo alto. Immagino l’imbarazzo, un collega che sgrana gli occhi e sibila perfido: “Ma come? Leggi la Recherche? Non l’hai ancora letta, alla tua età? Un insegnante?” E hai voglia a dire: “Mah, la sto rileggendo, sai per rilassarmi un po’ mentre aspetto l’autobus…” Avrei fatto la parte del pazzo, chi altri può rileggere Proust, se non uno psicopatico? E così celavo pesanti volumi ingialliti dietro alle pagine della Gazzetta dello Sport, soluzione scomoda, ma efficace. Ho fatto diversi recuperi in questa maniera, ma certo non dico quali. Cambiata sede lavorativa e mezzo di trasporto per raggiungerla, ho dovuto escogitare una nuova pratica. Ora vado in vacanza all’estero e lì, in posti dove nessuno mai mi riconoscerà, do sfogo alle mie voglie letterarie più turpi e inconfessabili. Quest’anno per esempio, mi sono letto ********, e l’anno prima ********. Così, a cuor leggero, da domani ricomincerò a circolare con i miei amati contemporanei indiani sotto braccio, presentandomi a tutti, affabile, con mezzo inchino e una strizzata di dieci: “Piacere, Emiliano B, faccio l’insegnante, leggo roba strana perché ho già letto tutto quello che bisogna leggere, vivo Quasi a Occidente.”

Luoghi dove infilare una baguette

Pedala svelta dall’altro lato della strada, fasciata dalla nuvola di un abito pastello, solleva il braccio dal manubrio in un gesto appena abbozzato di saluto: “Bonjour!” e fila via. Strozzata sotto la molla del portapacchi posteriore della bicicletta, appena sopra il parafango, c’è una baguette bella fragrante.

Cammina lungo la strada che porta al mare, la figlioletta per mano, uno zainetto nero di nylon sulle spalle, i capelli castani sciolti. Una baguette spunta dallo zaino, spazzolata per bene dal moto ondulatorio della chioma.

Uno sportivo corre lungo la battigia, costume verde mela, occhialoni avvolgenti, una baguette strizzata nella mano destra, un’altra nella sinistra.

Ho sempre guardato con stupore alla maniera francese di trattare il pane: come se la crosta sia qualcosa di non edibile, una parte che, una volta a casa, si levi e si getti via. Le prime volte ero un po’ in imbarazzo: chiunque abbia comprato una baguette in Francia sa che il pane gli viene schiaffato in mano così, senza alcun incartamento. In questo modo, per portarlo a casa, si deve necessariamente fare qualche cosa di schifoso: buttarlo sul sedile di dietro della macchina, metterlo sotto l’ascella sudata. Se piove bisogna ingegnarsi per scovare un modo di riparare la pagnotta dall’acqua, tipo cacciarla sotto il maglione o incunearla tra le stecche dell’ombrello.

Dopo una decina di giorni in Francia comincio ad avere nostalgia del mio panettiere di fiducia, che, tra l’altro, è anche il presidente del glorioso “Viola club Parma”: serve il pane impugnandolo con una manina apposita, per non maneggiarlo con le stesse zampe con cui tocca i soldi.

Comunque non è che le manie igieniste italiche non siano ridicole, in primis quella di usare guanti di plastica monouso, antiecologici al massimo, per servirsi di frutta e verdura nei supermercati facendo finta che nessuno l’abbia ancora toccata a mani nude. Ma la disinvoltura francese rimane esagerata.

Due bimbi spadaccini si affrontano a duello armati di baguettes, a causa di un assalto troppo impetuoso, uno dei due va a frustare con il suo pane il cofano ammaccato e rugginoso di una una vecchia Renault 5.

Un anziano arranca sul marciapiede, tiene tra le braccia a cerchio un mazzo di sei o sette bastoni di pane, è curvo in avanti, per puntellare meglio i filoni all’inguine. Arriva davanti al portone, ficca il carico di baguettes nel portaombrelli condominiale e tira un sospirone di sollievo estraendo le chiavi.

Una sera, tornando dalla spiaggia, acquisto quattro cose per cena in un market. Al momento di pagare, appoggio la borsa da mare alla cassa e, mentre armeggio con la carta per pagare, la cassiera gentile mi sistema le cose in un sacchetto di plastica. Quando arriva alla baguette, anziché unirla al resto della spesa nella borsina, la caccia dentro la borsa mare, insieme ai salviettoni fradici, alla maschera e al boccaglio, alle scarpine da scoglio inzuppate e luride di alghe. È allora che sbotto: “Eccheccazzo! Francesi, avrete anche fatto la Rivoluzione, inventato la Libertà, ma con il pane siete proprio dei cessi!” Lei scuote la testa e mi guarda con occhi interrogativi, un sorriso divertito che illumina il locale. “Au revoir!” e prendo la porta.

La sera a tavola preparo un bel sandwich. “Com’è saporito questo pane… un po’ gommoso…” dice Emiliana dandoci di mandibola con impegno. “Buono, vero? Lo vendono al petit Casino all’angolo. Bon appétit!”

La ragazza della posta

Or colui veggia
Che da tutti servito a nullo serve.

G. Parini

Sarà contenta, oggi, la ragazza della posta.

La sala affollata, gli sportelli intasati, il display fermo da venti minuti sul numero E108, la ragazza seduta di fianco a me sbircia in continuazione il mio giornale, finché non lo metto in mezzo: “Leggiamolo insieme, così non rischi di annodarti su te stessa per seguire i miei movimenti…” “Grazie, molto gentile!” cinguetta lei. “Prego, non c’è di che, fossi stata una vecchiaccia poteva anche spiccartisi la testa dal collo!” non glielo dico. Sfogliamo il Secolo XIX, fotografie a colori del tizio della prima di Batman, James Holmes: il pluriomicida ha la faccia pulita e i capelli colorati arancione, un ragazzo come milioni. Non me ne frega niente delle ricostruzioni della strage, ma indugio sulle foto perché mi sembra che la mia compagna di lettura stia scorrendo con curiosità le colonne e non mi va di metterle fretta. A un certo spunto sbotta: “Questo lo devono ammazzare, Speriamo che lo ammazzino!” La guardo stralunato, occhioni azzurri quasi trasparenti, capelli rossi e lentiggini, l’anello al naso: “Scusa?” “Lo devono uccidere, lo devono condannare a morte!” ripete lei con il tono dell’infermiera d’ospizio che tenta di entrare in contatto con il più rintronato dei bacucchi. “Ah! E perché mai? Che senso ha ammazzarlo, mica tornano in vita le vittime, perché fare un morto in più, insomma? Lui non può più far del male a nessuno. Ah, a proposito, piacere: Emiliano…” “Doris. Lo devono uccidere, è uno stronzo. E poi, a che cosa serve? Che utilità ha per la società, quel brutto ceffo lì? No, non serve a niente e a nessuno.” “Ma cosa dici, ma come puoi pensare sia possibile stabilire se un essere umano serve o meno agli altri? E poi che orrore questa visione utilitaristica misura di tutto, pure della vita.” Non dico niente, lei continua: “In prigione lo stato lo deve mantenere e lui non serve a nulla”.

Così, quando stamattina ho letto che Marvin Wilson, affetto da ritardo mentale, è stato giustiziato in Texas, ho pensato alla ragazza della posta. Un disabile con QI pari a 61, omicida, non serve a nessuno. Sarà contenta, oggi, Doris, ho pensato. O magari no, lì, in attesa che chiamassero il suo numerino, lentiggini ha detto due o tre cose che le venivano in mente, così, per dire, per parlare. Cose che non pensava fino in fondo. Ché mica tutte le ragazze di sto mondo hanno Emiliano B a scuola a fargli una zucca così con Dei delitti e delle pene e, se ce l’hanno, non lo ascoltano perché è vecchio e noioso.

Doris no, non crede davvero che esistano persone inutili da fare fuori, ma lo stato del Texas, evidentemente, sì.

Flo-Jo vs Ye Shiwen?

Scendeva in pista con unghie lunghissime laccate a colori appariscenti, bodies dalle fogge improbabili, divise da gara che coprivano una gamba fino alla caviglia lasciando l’altra nuda. Bruciava le distanze, polverizzando, sul finire degli anni ottanta, i record nella velocità femminile, con tempi che appaiono tuttora irraggiungibili: 10”49 nei 100 m, 21”34 nei 200 m, realizzati entrambi nel 1988, anno del ritiro dopo i tre ori olimpici di Seul. Florence Griffith-Joyner, Flo-Jo, ha marcato in maniera indelebile la storia dell’atletica leggera, nonostante i pochi anni di attività, per poi dedicarsi alla moda e alla pubblicità e per ricoprire un ruolo come consigliere per l’educazione fisica dell’amministrazione Clinton. I riscontri cronometrici stratosferici, mai avvicinati da nessun’altra atleta, se non da Marion Jones, squalificata e addirittura imprigionata per doping, hanno dato luogo a irrisolte polemiche sull’uso di sostanze proibite da parte di Flo-Jo. Ma non sono mai emerse irregolarità a suo carico e i sospetti sono rimasti tali fino al 21 settembre 1998, quando, in seguito a una misteriosa crisi epilettica che la colse nel sonno, la velocista morì a soli 38 anni. La tragica scomparsa parve accreditare il sospetto uso di steroidi anabolizzanti, si parlò addirittura di una partita infetta di ormoni della crescita: voci più credibili forse, ma pur sempre voci, perché i test effettuati durante le competizioni hanno sempre dato riscontri negativi.

Colpisce come, in questi giorni, proprio la federazione americana insinui sospetti sulle prestazioni della nuotatrice cinese Ye Shiwen, arrivando addirittura a parlare di doping genetico. Insomma, ci sono i controlli: o ci si fida, o si fa a meno di gareggiare. Insinuare il sospetto senza avere riscontri a sostenerlo mi sembra una cattiveria improduttiva, venata anche, nel caso di Ye, di razzismo: “Sono cinesi, quindi imbrogliano e lo fanno senza scrupolo alcuno”. Può darsi, ma da che pulpito viene la predica! Non esiste infatti un doping occidentale “umano” e un doping crudele orientale: esiste una concezione dello sport che fa sì che ragazzi volenterosi vengano travolti da una macchina pensata per spremerli fino all’ultima goccia e quindi gettarli via, come calzini bucati ormai inservibili.

Ye Shiwen ha sedici anni e viene da Hangzhou, una città a sud di Shanghai, posizionata sul delta del Fiume Azzurro, che conta quattro milioni di abitanti. È un centro industriale, la FIAT ci costruisce il cambio della Panda. Prima degli ori olimpici, Ye ha collezionato un titolo mondiale e due ori ai giochi asiatici. Le sue specialità sono i 200 e i 400 misti e, quando nuota le vasche finali a stile libero, sembra un motoscafo, una potenza incredibile.

Io credo alla storia di Ye Shiwen, al suo sorriso grazioso, non amo il sospetto senza prove, provo ribrezzo per le illazioni dettate da presunzione di superiorità morale. Ci credo fino a un’eventuale smentita, fondata però su dati oggettivi.

Credo alla storia di Ye come credo alla favola di Flo-Jo, ragazza di famiglia modesta, afroamericana di Los Angeles, passata dal lavoro allo sportello di una banca all’essere la donna più veloce di sempre. Quel tempo incredibile sui 100 si spiega anche con un forte vento a favore non rivelato da un anemometro rotto.