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A luci spente

microfono_originalNon ce ne sono mica più tanti, come lui, in giro. Capelli biondi stopposi rovinati da anni di tinte sconsiderate, barba trascurata e voce roca, modulata da corde vocali spesse, scartavetrate da pacchetti e pacchetti di Marlboro: di rockers veri oramai se ne vedono pochi. Una serata qua e là, sempre più rara, sempre meno pagata, in locali sempre più fuori città, sempre più spopolati. Il pubblico ingrigisce e guarda l’orologio mentre in scena è il suo tormento, aggrappato all’asta del microfono, come d’abitudine. Un pubblico che dopo vent’anni ancora scatta foto ai suoi concerti, perché deve esserci pure un modo per usare l’iPad oltre che per leggere la mail aziendale.

Una serata ogni tanto, il magazzino tutte le sante mattine: bancali da spostare, da scellophanare, da sbancalare, muletti che corrono rimescolando cartacce e cicche spente sul pavimento di cemento verniciato di verde. I compagni insopportabili: le volgarità nel dialetto greve di Giovanni, i video sul telefonino di Mohammed, così sconci da prendere allo stomaco. Il pudore imbarazzato di Ion, che butta un occhio per educazione, ma senza guardare. Il capo che urla di piantarla di cazzeggiare, che lì dentro lavora solo lui. Il pubblico uno se lo sceglie, i colleghi no.

Sullo stradone stasera sfila una fiaccolata per la legalità. I cittadini del quartiere Nord si lamentano di non poter più uscire di casa. Troppi spacciatori. Ora basta! C’è scritto così, sui vecchi lenzuoli retti da ragazzi strizzati in bomberini neri. Più controlli, che cosa ci fanno tutti questi stranieri per la strada? Domande scritte a pennarello su cartelli improvvisati, trasportati dalla pompa della Erg fin sotto il ponte della ferrovia. Qualcuno, intervistato dalla TV locale, mette in guardia dal pericolo che le ragazze, un giorno, debbano indossare il burqa anche in Italia. Fa lo slalom tra la gente che manifesta ordinata, schermando la fiaccola dal vento con la mano libera. È in leggero affanno, in ritardo per le prove, la chitarra nella custodia rigida, con sopra gli adesivi scoloriti. Il tipo della TV lo adocchia da lontano, gli viene incontro con tutto il suo quintale abbondante avvolto nel completo d’ordinanza. Deve averlo riconosciuto, c’è stato un tempo in cui era piuttosto celebre in città, e l’occasione gli è sembrata interessante: l’intervista al musicista ribelle in corteo per l’ordine e la legalità: «Anche tu giù in strada questa sera?» Oppure: «Quanto ci si sente minacciati, a vivere qui, in un far west di illegalità, immigrazione e fondamentalismo?» Meglio evitare.

Svicola via tagliando per una traversa male illuminata. Via da chi per questa sera è No al degrado, oggi ci riprendiamo le nostre strade e poi, domani, torniamo a specchiarci lungo interi pomeriggi nelle vetrine del Centro commerciale. Via da chi teme il burqa perché già ne indossa (o ne fa indossare) uno, ogni giorno. Via da chi nella buona e nella cattiva fede chiama legalità il razzismo. Le lampadine a incandescenza della sala prove mandano una luce fioca, ma calda. Ci sono i pezzi nuovi da risistemare. Le stramaledette cover da mettere a punto, perché nei locali, oggi, ti chiedono sempre più di fare cover. È meno rischioso.

La mia città

fornacicrotteSi sente ancora l’odore delle acciaierie, dalla ciclopedonale che corre lungo il Mella, che stamattina è intasata di podisti, di ciclisti e di padroni di cani, tutti presi in acrobazie a saltare le pozzanghere lasciate dagli acquazzoni della notte. La pioggia deve avere lavato l’aria dai gas di scarico e così l’odore delle terre che si alza dalle fabbriche domina incontrastato, come quando ero bambino. Allora era normale, le colate continue pompavano metallo fuso e vita nelle vene della città, i fumi riempivano il cielo e al tanfo di ferriera non ci facevi mica caso. Nelle nebbiose domeniche d’autunno, mio padre ci portava in Maddalena. Dalla cima del monte la nebbia di sotto era un oceano di zucchero filato, bianchissimo, una magia. Ma se aguzzavi la vista, vedevi delle macchie nere a cariare quel biancore. “Quella è l’Alfa” diceva papà: “Quella è Pietra, la Ori Martin è dall’altra parte.” Adesso quelle chiazze sono scomparse. Per la verità non c’è nemmeno più la nebbia, oggi, chissà perché. Sono scomparse per via dei filtri, dicono, che finalmente trattengono almeno una porzione di inquinanti, ma sono scomparse soprattutto perché inesorabilmente le linee di produzione si spengono,  si trasferiscono altrove, lasciando sole le bandiere della FIOM, fissate con lo scotch da pacchi ai cancelli davanti agli stabilimenti fermi. Per questo l’odore delle acciaierie, sulla ciclopedonale lungo il Mella, è una sorpresa. Come quei ruderi di architetture industriali che vedo spuntare all’improvviso, scorticati, assediati dalle sterpaglie, alla mia destra, alla mia sinistra, mentre corro verso nord, sopra Collebeato.

È questo quello che rimane di un modello produttivo che ha fatto la fortuna di Brescia. Questo, e tutti gli inquinanti che ammorbano la falda acquifera, tra i quali robaccia radioattiva come il Cesio 137, porcherie che mi scolerò assetato dopo la salutare corsetta mattutina. Dicono i vecchi: “Che vuoi che sia? Sarà vero che l’acqua è velenosa? Mah… Io l’ho sempre bevuta…” Come a dire che è meglio non indagare troppo, perché in fondo era necessario ridurre così il territorio, perché l’industria pesante desse lavoro a tutti, e anche gli operai si facessero la macchina e la casa pagando il mutuo e mandassero i figli a scuola e all’università. La democrazia del lavoro: ne valeva la pena, dicono. Mi fermo sotto le  fornaci di Ponte Crotte, tre gioielli di archeologia industriale eretti nel XIX secolo per cuocere la pietra del fiume e ricavarne calce, oggi in rapido declino per l‘incuria degli amministratori. Un luogo simbolo, forse. Un luogo dove si può decidere che tutto sia cominciato. Mi fermo qui e vi chiedo, streghe che grattate il cielo con le vostre forme sgangherate: “È stato giusto così?” Ma tanto voi non rispondete e io non so perché vi interrogo, perché arrivo fino a qui . Forse è soltanto che la mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva, e il mio non sta in cima a un’erta, ma qui dove lo scroscio delle acque marroni del fiume si mescola con il fragore della tangenziale, vicino ai cancelli di ferro dell’Iveco.

Feroci timidi animali di città

25/06/2010, Lavanderie Dry Tech

Si stringono sul marmo sbreccato del gradino davanti al portone di casa. Lui, casco di capelli cotonati, sigaretta da arrotolare in una mano, fissa qualcosa sul selciato del marciapiedi e cerca le parole. Lei, impaziente dietro la frangia diritta perfetta, da pubblicità di uno shampoo, attende spiegazioni. L’altra, nascosta nella kefiah viola, sbuffa nuvole di fumo azzurrino, un po’ seccata, in piedi a una ventina di metri di distanza. Dietro la vetrina della lavanderia a gettoni, un cocker solitario fissa l’oblò di una macchina: non pare molto interessato alle vicende amorose adolescenziali del vicinato. Del resto, dice, sono le stesse in tutto il mondo. Tanto vale aspettare che la lavatrice finisca, specchiandosi la toelettatura fresca nel vetro, poi raccogliere il bucato fragrante e riportarlo a casa. Il padrone nel frattempo si è rilassato in salotto, sprofondato in poltrona, in compagnia di un romanzo nero e di un tazzone di earl grey fumante, con la nuvola di latte e tutto quanto. “Vedi, ci sono cani che sanno rendersi molto utili, animali preziosi e molto ricercati.” Dico alla Chicca che nel frattempo tira per riuscire a cacciare il naso in qualcosa di puzzolente raggrumato in un’aiuola spaccata dalle radici di un tiglio. La carcassa di un piccione, forse, oppure i resti di un roditore della Padania centrale. “Questi cani, dicevo, sono molto ricercati e valgono un sacco di soldi. Sono adeguatamente ricompensati, questo è ovvio, da proprietari generosi e affabili. Anche tu, cara Chicca, se volessi…” Niente da fare, l’attrazione fatale per la carcassa è surclassata da quella per una pozza oleosa poco distante, originata da chissà quale suppurazione cittadina. Sospiro: “Non diventerai mai un cane come si deve!” E la trascino nel tour solito di edicola, bar, panetteria.

Tornando verso casa butto un occhio in lavanderia e scopro che il cane non era solo. La padrona, biondo-Parma-centro e abbronzatura come si deve, si affanna a svuotare il cestello in una grossa sporta di plastica, con sopra il logo di una catena locale di negozi di scarpe. Prima che spariscano alla vista, riconosco il cuscino di una cuccia di quelle che vendono all’Ikea, un paio di cappottini da cane, un guinzaglio con pettorina e vari asciugamani. Attendo la tipa al varco. “Buongiorno! Che bel cagnolone… come si chiama? Ho visto che lei, la roba del cane, la lava qui, nelle macchine a gettone.” “Già, guardi, glielo consiglio. Con il mio cane poi, che ha il pelo lungo e ne perde molto, la lavatrice di casa si sporca tutta e, a lungo andare, si rovina.” Non le rispondo come vorrei: “Uh! È proprio un’ottima idea! Per non sporcare la mia lavatrice insozzo quella dove anche altra gente viene, inconsapevole, a lavare!” Non le rispondo così anche perché lei mi anticipa leggendo il mio sguardo: “Beh, ma qui, a lavarci la roba, ci vengono solo i marocchini, per loro è lo stesso.” Cosa significhi, che per loro è lo stesso, non è dato sapere: che se sei marocchino non ti accorgi se hai la camicia pulita o meno perché, tanto, sei sporco dentro? Che se sei marocchino non hai diritto a fare un bucato decente?

La tipa della frangia trascina per i capelli quella con la kefiah per alcuni passi. La tipa con la kefiah strilla. Casco cotonato si è dato alla macchia, probabilmente correndo ai ripari nell’appartamentino dei suoi, proprio lì al pian terreno. Io, per quel che mi riguarda, seguirò il suo esempio. La violenza in ogni caso, anche se fatta soltanto di bolle di sapone e peli di cane, non fa per me.

Il pensatore di riferimento

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È più facile incrociarlo nei locali di via D’Azeglio, tipo il Dulcamara o da Kikko, ma frequenta spesso anche i pochi posti decenti in quella parte di città che non vale troppo la pena frequentare, di là dal ponte, come che so, il Tabarro o l’Oste Magno. Ingurgita quintalate di stuzzichini da aperitivo, suo unico nutrimento: montagne di tartine rinsecchite, sale condito di noccioline, olive affogate in fluidi strani, dadini di emmenthal gommoso da infilzare con gli stuzzicadenti e cubetti di mortadella con il grasso giallo che vien via a grani dal macinato rosaverde. Trangugia litri e litri di spritz, appoggiato distrattamente al bancone in maniera che, chi voglia ordinare qualcosa al barista, si debba prima in qualche modo interfacciare con lui. “Mi scusi…” gli dice l’assetato avventore scuotendolo per la giacchetta di tweed: “Permesso!” Lui finge di non sentire e mena un’altra rimestata al drink annacquato che regge con la sinistra, mentre con la destra accompagna l’arringa con cui si rivolge al proprio disperato uditorio, una studentessa che punta con la coda dell’occhio la porta della toilette, unica via di fuga e il suo fidanzato, che inganna il tempo recensendo il locale su TripAdvisor. Parla veloce, parla di tutto, ne sa una più del diavolo, tanto che, grazie anche agli occhialini tondi, alla pancetta e alle sciarpine disordinatamente attorcigliate attorno al collo è diventato una specie di pensatore di riferimento, qui in città, in questa città che fu di sinistra in giorni lontani. “Lascia perdere i partiti,” dice, per esempio, il pensatore di riferimento ruttando al gusto Aperol: “è tempo di qualche cosa di nuovo!” Poi sterza, cambiando argomento, per non annoiare: “Finiamola con le rassegne cinematografiche, che palle! Piantiamola con queste cose da intellettualoidi, il teatro, i concertini, i sottoprodotti culturali a uso e consumo dei soliti quattro.” Ne ha per tutti, è un tipo piuttosto caustico, il pensatore di riferimento. Nel bel mezzo di una critica severa alla cucina di un locale, a detta sua troppo sofisticata, ci infila un’analisi della vicenda dell’inceneritore, che in un centro come Parma, che vuole essere europeo: “Ci sta tutto, insomma. I rifiuti vanno bruciati, del resto la differenziata è fallita anche in Europa. Guardate, fidatevi, io lo so bene, ho fatto l’erasmus a Barcellona dieci anni fa e ho visto con i miei occhi come queste ingenue politiche ambientaliste siano andate a sbattere contro un muro. Chi di voi riesce a raccogliere l’organico in quei cestini marroni, per esempio?” Quando si infervora, il pensatore di riferimento, si caccia in bocca ancora più arachidi del solito, aiutandosi poi col palmo delle mani aperto a spingerle giù in gola: “La sinistra vecchia ammuffita ha fatto il suo tempo, la destra pure, Grillo anche, perché è sia di destra che di sinistra. Ecco, solo Casaleggio mi convince, lui sì che è un personaggio trasparente, un vero volto nuovo, pulito.” Il pensatore di riferimento nota, sputacchiando smerigli di noccioline semimasticate, come l’eminenza grigia del M5S abbia un look davvero cool, poi chiude: “tifo il default, una bella botta per tutti, vai al bancomat e i dindani non vengono più giù, così dopo c’è la rivoluzione, quella vera, mica quella di voi comunisti, ma quella vera dura e pura di noi cittadini comuni che tra uno spritz e l’altro da anni disegniamo mondi migliori e adesso siamo pronti a rilevare le leve del potere. Con la meritocrazia, finalmente, e compagnia bella a farla da padrona.” Arrotola una sigaretta di profumatissimo Old Holborn blu ed esce teatralmente dal locale.

Racconta anche aneddoti spassosi, il pensatore di riferimento: “L’altro giorno, quando è nevicato, il mio vicino di casa è sceso a spalare, povero vecchio rimbambito e sapete che ha fatto? Ha mica fatto un colpo, lì, sotto i miei occhi. Mi è pure toccato chiamare l’ambulanza, che per fortuna è arrivata in fretta sennò crepava, quello scemo… settant’anni cosa vai a spalare? Dico io… ripeto, un miracolo che io fossi in terrazzo a fumare e l’abbia visto accasciarsi al suolo, così ho chiamato i soccorsi subito.” Tutti concordano, annuiscono, una bella botta di fortuna, in effetti. Solo il barista, roco, insinua il dubbio: “Ma te? Te che non fai un cazzo tutto il giorno, non potevi spalarla te la neve che hai trent’anni?” Il pensatore di riferimento alza gli occhi al cielo, mastica distratto una patatina, soffia via qualche briciola dalle punte delle dita: “Eh no! No, cari miei! Queste cose sono di pertinenza del Comune. Non sarò certo io a chiudere le falle del piano neve piegando la schiena. Per quanto mi riguarda si possono formare lastre di ghiaccio spesse quattro dita: è il Comune che deve muoversi.” Il pubblico annuisce convinto: “Bravo, bravo!” “Giusto, sì, colpa del sindaco!” “Hai proprio ragione, un altro aperitivo?”