Soccorsi plurimi

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Un sibilo secco, un taglio ad arco, teso come una ferita aperta nell’aria, e il galleggiante precipita con un pluff leggero nell’acqua increspata del golfo, sotto un cielo plumbeo. Fissare l’ondeggiare ostinato della fluorescenza nella schiuma è un blando esorcismo, in questo inverno freddo della guerra, della violenza, dell’influenza stagionale, della peste eterna. C’è una sorta di funzione consolatoria, nell’immobilità o, meglio, nella mobilità controllata e circoscritta, di cui la pesca è buona sintesi. 

Un po’ più in là, presso il Terminal Crociere una gigantesca MSC-Qualcosa manovra lenta e solleva turbini di fango rimestando il fondale con le possenti eliche, sostenuta dalla curiosità ammirata di passanti e turisti infreddoliti, che scattano qualche foto con il telefono. Lo sviluppo del porto ha preso strade che anni fa erano imprevedibili: non si movimentano più solo container, ma anche esseri umani in cerca di sogni a costo trattenuto, sempre che si sia abili a respingere i servizi opzionali. Un’importante novità, per la città e il suo approdo, che potrebbe non rimanere l’unica. 

Per qualche ora, infatti, lo scalo spezzino è stato proposto come “porto sicuro” alla nave Ocean Viking di SOS Méditerranée, prima che le autorità decidessero di dirottare l’imbarcazione e il suo carico di 113 naufraghe e naufraghi su Ravenna. La Spezia potrebbe però diventare un “porto sicuro” nei prossimi mesi. Il testo del decreto legge approvato dal gabinetto Meloni il 28 dicembre prevede infatti che le autorità italiane garantiscano un porto di sbarco alle navi che salvano migranti in mare. Osservato che la tendenza degli ultimi mesi è stata assegnare porti molto lontani dai luoghi del salvataggio, è possibile che la Liguria diventi nel 2023 uno dei punti di approdo per le imbarcazioni delle ONG. 

Faccio correre lo sguardo lungo il nylon teso dalla brezza, sottile come un filo di ragnatela. Più il “porto sicuro” è lontano dalle zone di salvataggio, ho letto da qualche parte, più le navi se ne staranno lontane dalle acque in cui potrebbero salvare vite,  essendo obbligate a lunghe trasferte a nord. Alle navi che hanno effettuato un soccorso, inoltre, sarà impedito di trarre in salvo eventuali altri naufraghi senza una specifica autorizzazione da parte dell’Italia. Saranno in questo modo impediti i cosiddetti “soccorsi plurimi”. L’auspicio degli estensori del provvedimento è che, rendendo più sporadici i salvataggi, si impenni il tasso di mortalità per annegamento in mare dei migranti. Tale aumento scoraggerebbe i tentativi di attraversare il Mediterraneo e, in pratica, metterebbe un freno al fenomeno migratorio. 

Consapevole del dilemma etico sotteso a tale decisione, Meloni ha, nei giorni scorsi, espresso una valutazione molto significativa, ancorché traballante sotto il profilo logico, se inquadrata nell’orizzonte di valori che chi l’ha formulata pone come proprio riferimento. Dice che i migranti che tentano il viaggio sono quelli che hanno i soldi per pagare gli scafisti. Noi non accogliamo, in pratica, donne e uomini davvero poveri, ma una specie di middle class privilegiata disposta anche ad acquistare un servizio illegale. La scelta di allentare le iniziative per evitare gli annegamenti troverebbe quindi una sorta di giustificazione etica. Non muoiono i disperati, ma dei giocatori d’azzardo che non si accontentano di prosperare con i loro mezzi nel loro paese. Il principio sintetizzato dal motto meloniano non ostacolare chi vuole fare trova quindi una ferma limitazione basata sulla provenienza del soggetto. È una cosa che fa abbastanza schifo, a pensarci. 

Quando strappo il galleggiante dall’acqua, il sole di dicembre si sta già accomodando dietro l’orizzonte celato dal monte alle mie spalle. Ripongo la canna, con cura sistemo l’attrezzatura. Coppie rare percorrono lentamente la passeggiata Morin, tenendosi per mano. Una turista orientale è in posa per una foto con un cannone monumentale puntato verso il largo, sorride all’obiettivo, fa il segno della vittoria con le dita.

Il paradosso di Zlatan Ibrahimović o della tecnocrazia

Lo sconcerto è la reazione di Samia Yusuf Omar di fronte alla perfezione meccanica dei corpi delle rivali, quando le vede per la prima volta, tra il campo di riscaldamento e la pista di Pechino 2008 dove si corrono i 200 m piani. C’è Veronica Campbell-Brown in corsia 6, tanto per dire, e Samia, atleta somala che tre anni dopo sarebbe annegata nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Italia, creatura leggera di una Mogadiscio martoriata, è una perfetta sconosciuta: ha diciassette anni, è magra come un’acciuga e un’improbabile t-shirt bianca l’avvolge come una nuvola. Si guarda attorno sbigottita, che cosa mangiano queste? Di cosa sono fatti quei muscoli d’acciaio? Si rende conto subito della propria inadeguatezza fisica, del fatto che lo sport, a quei livelli, è fatto di una meticolosa preparazione atletica in grado di trasformare un corpo in una macchina implacabile. Realizza di colpo che la miseria e la guerra sono incompatibili con lo sport, come con tutti gli altri sogni. Gli interminabili 32’’16 del mezzo giro di pista di Samia sono un urlo che insieme a lei ha valicato gli spalti di quell’arena e risuona vivo ancora oggi. L’urlo di un popolo intero.

La perplessità è invece la reazione di Zlatan Ibrahimović, attaccante svedese del Milan, di fronte alla perfezione meccanica del corpo di LeBron James, cestista statunitense. Ma come, dice il centravanti rossonero, ti ritrovi a saper palleggiare in quel modo, sei fenomenale, e anziché concentrarti su questo, parli di politica? Il riferimento è al coinvolgimento di LeBron James con Black Lives Matter e l’invito rivolto dal calciatore al giocatore dell’NBA è quello di stare zitto e giocare. Proprio come fa lui, Ibra, che infila gli scarpini, tira pedate e non parla di politica. È proprio in questo invito, ovviamente, che può essere ragionevolmente definito il paradosso di Zlatan. Un invito agli sportivi a ridurre la propria umanità a solo corpo: un corpo in grado, è vero, di compiere gesti che sarebbero impossibile per chiunque altro, ma pur sempre solo corpo. È un paradosso perché, sostenendo di non fare politica, Ibra per primo rivolge al cestista un discorso dal deciso valore politico: pensa a palleggiare, a essere corpo, non turbare il pubblico pagante con improvvide dichiarazioni, ma limitati a guardare il conto in banca lievitare e raccogli i frutti di questo sistema che discrimina. Peccato che assecondare la discriminazione, ancorché vergognoso, sia politico quanto contestarla, e presentare come accettabile una posizione ignobile attraverso una patente di apoliticità è pratica vecchia. Buona solo a guadagnarsi un’ospitata a Sanremo.

Storia vecchia, questa della richiesta di tacere, della riduzione dell’umanità a una specifica capacità, competenza, perizia tecnica. A una tecnocrazia dello Zitto e… Zitto e canta! Zitto e suona! Zitto e balla! Zitto, dottore, faccia prescrizioni, non domande! Pensa a guidare l’autobus, va, e sta’ zitto che è meglio! Interessante è anche la versione riservata agli insegnanti, di questo invito, che di solito si articola nella forma del non dovete parlare di politica in classe, ma insegnare la grammatica, come se una grammatica non fosse, in sé, grammatica di emancipazione. Una coincidenza che, ci insegna Samia Yusuf Omar con i suoi 200m per la dignità di un popolo intero, vale anche per lo sport (e, a dire il vero, per quasi tutto) e che quindi rende il Paradosso di Zlatan doppiamente paradossale. La domanda corretta è, infatti, retorica: come si fa a fare sport senza fare politica?

Radical chicken

Dice Yuval Noah Harari, nella diciottesima delle sue 21 lezioni per il XXI secolo, dedicata alla fantascienza, che il successo dell’uomo come specie, nel controllo del mondo, è dovuto alla sua fiducia nelle narrazioni. Così, se gli uomini vanno in guerra lo fanno perché credono in Dio, e credono in Dio perché ne hanno letto nei libri la storia, o l’hanno visto ritratto in qualche diapositiva proiettata dalla maestra di catechismo, bianco per antico pelo o biondo, a seconda della versione. Allo stesso modo, se noi ci riempiamo la casa di carabattole, tipo le candele profumate e i bruciaessenze negli anni dell’università, così come i decanter e i calici larghi da vino negli anni della maturità, lo facciamo perché crediamo nell’ineluttabile affermazione del modello capitalista e siamo fedeli alla convinzione che tanto consumo dia tanta felicità, e ci crediamo perché questo è il modello sostenuto da Hollywood e dall’industria pop. 

Sarà quindi da ricondurre alla pervasività della narrazione hollywoodiana il fatto che, alla faccia dei morsi della pandemia da coronavirus, l’apertura di un nuovo punto vendita della catena regina dell’hard discount in città abbia scatenato un putiferio. Il traffico su via Fleming è in tilt, colpi di clacson, volute di PMI, torsi fuori per metà dai finestrini e pugni agitati in aria a maledire i santi e quello con la Panda che non si muove. Gente ne arriva anche in bicicletta e anche a piedi, così gli automobilisti cominciano a essere invidiosi, perché quelli lì, con le loro buste di plastica pronte da riempire, mica sono imbottigliati, passano davanti. Così, ecco che drappelli di mogli si sganciano dalle automobili incastrate sullo stradone per andare in avanscoperta. Che razza di confusione, nemmeno attorno al Tardini ai tempi di Hernan Crespo. Vuoi vedere che c’è davvero Margot Robbie, tra le corsie, a soppesare attenta una busta di quel buon salamino fucsia? Un tizio parcheggia sulla ciclabile, scende e punta il discount. Selva di clacson, di: “ma dove vai?” Di indignati parmigianissimi: “veVgòòògna!” Quello si ferma, spiana il dito medio di entrambe le mani e ruota su se stesso di 360 gradi, un paio di volte con isocrona solennità. Gli insulti diventano teste che annuiscono in cenni di stima, di sottintesi: “Però, ha le palle il ragazzo!” Lui se ne va, un’uscita teatrale, circonfusa della maschile venerazione del pubblico. 

Dopo mezz’ora sono quasi all’ingresso del parcheggio, chi me l’ha fatto fare di passare di qua? Guardo il piazzale, è tutto decorato a larghe nappe e palloncini gialli, a centinaia, sono appesi ovunque. In mezzo a un’aiuola ci sta anche un clown, anche lui ha un mazzo di palloncini, lo stringe nella sinistra. Verso ogni bimbo che passa, pinzato al polso senza tante cerimonie dalla mamma che ormai vede la meta, allunga un baloon: “Lo vuoi un palloncino, Georgie?”Sudo, ne ho piene le tasche, mi innervosisco, non ce la faccio più e odio tutti. A un certo punto la radio passa Brunori Sas, quella canzone che a un certo punto dice: chissenefrega se è sesso o amore, conosco la tua pelle tu conosci il mio odore. E che poi continua anche peggio. Passa quella canzone e allora, non so se sia la dozzinale grossolanità dei versi o il pensiero dell’odore corporeo di Dario Brunori, davvero, non lo so. Fatto sta che esco anch’io con tutto il busto dal finestrino della Hyundai, agito il pugno tracciando circonferenze nello smog e mi rivolgo a tutti quei lobotomizzati, che mica le leggono le lezioni di Harari per questo secolo dannato: “Ma dove andate? Non vedete che intasate tutta la strada? Branco di buzzurri consumisti? Torma di cafoni tutti uguali. Io non ci devo venire con voi alla Lidl! Io, io… vado all’Esselunga, questa settimana, ecco, ché ho il buono sc… magari la prossima…”

Corona non abbiamo per quel che cerchi invano. Due note sul punto di vista nei romanzi di Tiffany McDaniel

È quella dell’infanzia l’unica angolatura da cui la realtà risulti accettabile: il famoso fanciullo che dà il nome a ogni nuova scoperta, la battezza e la rende materia di un sogno, una favola così evanescente e instabile da poter essere colta solo come intuizione, perché non c’è tempo né modo di afferrarla prima che si volti in incubo. Proprio questa magia scivolosa e incerta è il brodo di coltura della narrativa di Tiffany McDaniel, tre romanzi editi in Italia da Atlantide: L’estate che sciolse ogni cosa, Il caos da cui veniamo, Sul lato selvaggio. C’è in queste storie uno sguardo bambino, che filtra ogni cosa, ogni abominio del mondo: l’orrore colpevole, il rogo delle streghe e i pogrom, la violenza dei giusti, manifestazione tipica maschile e bianca, lo stigma della malattia e della povertà, l’abisso delle dipendenze imposte a un’umanità disperata come realizzazione estrema della coincidenza capitalistica tra vita e consumo, ma anche l’orrore involontario, casuale, la fatalità dell’errore, l’esito atroce di un’azione innocente, inconsapevole, magari mossa dalle migliori intenzioni. 

Sal, un ragazzino nero che dice di essere il diavolo, sa disegnare le cose con la nitidezza spiazzante che solo chi è stato cacciato dal regno dei cieli può avere; Landon, padre imperfetto mangiato dall’amore e corroso dalla violenza dei poveri, lascia in eredità alla figlia Bitty una virtù immaginifica che la renderà scrittrice; Arc, figlia di tossica ridefinisce l’orrore di un’infanzia di abbandono, di ghettizzazione, di violenza pedofila, attraverso racconti in grado di far diventare bello il lato selvaggio della vita. Sono tre esempi dello sguardo sopra accennato, è un punto di vista capace di far fiorire di favole con incontrollabile generosità e avvolgere in atmosfere quasi incantevoli, benché dolorose. Ma è anche un punto di vista che non perdona, non ripulisce la realtà: lo sguardo dei ragazzi di McDaniel è fragile, come lo sono i bambini veri, e non solo non muta i crudi fatti, ma nemmeno bene riesce a trasfigurarli, e il velo che si propone di celare alla vista la siringa, il sangue, il coltello, è purtroppo traslucido. 

Così le parole ingannano, le favole sono sdrucciolevoli: ci consentono magari di guardare in faccia le cose, di provare ad andare oltre l’orrore, ma non di escluderlo. Il dolore è più che intimamente legato alla natura umana, è connaturale ad essa e non è concessa via di fuga. Nemmeno nel futuro, nemmeno in un mondo che non vedremo: una ragazza che arde sul rogo nel XVII secolo può forse pensare che il suo supplizio sia frutto di un’epoca ingiusta, selvaggia. Ma se urla tra le fiamme quando il XX secolo è ormai agli sgoccioli, lo fa nell’angoscia della consapevolezza che non le è concessa giustizia, né redenzione, nemmeno postuma. Siamo state figlie, sorelle e madri, ma nessuno crederà a questo se non dopo aver pensato che eravamo tossicodipendenti, prostitute e individui dalla mente debole.

Il dominio della povertà, il dominio dell’abuso, il dominio crescente della dipendenza, non possono essere trasformati dall’alchemico incanto della scrittura, non è così che funziona. Nel mondo di McDaniel è meglio mettersi l’anima in pace, perché nel momento di massimo strazio c’è sempre un’ulteriore violenza, probabilmente peggiore, pronta a schiantarci, e che inevitabilmente si abbatte su di noi. Non c’è illusione e le favole belle non ammettono il lusso di poter pensare che c’è sempre un motivo per cui valga la pena, in fondo, di vivere. Se non, forse, per le favole stesse, così vane, inaffidabili e ammalianti.

Nota: il titolo e le citazioni in corsivo sono tratte da Sul lato selvaggio

Il cantiere

Il corridoio plurimodale Tirreno-Brennero squarcia l’ecosistema molle del fiume con secca perentorietà. Sarà questa, quella che chiamano transizione ecologica? Una lama fredda di cemento e lamiera nella carne calda della pianura, un camion che si abbatte sulla Graziella rossa di una bimba, il rottame a terra, squassato, la ruota che ancora gira quando tutto ormai tace? Mi affaccio alla recinzione del cantiere che dorme, il reticolato arancione circonda l’area per centinaia di metri, aggrappato qua e là a sostegni rugginosi, uno scarabocchio a pennarello sulla pagina di un volume di pregio.

“Di qua non si può passare professore, c’è il cantiere,” fa il vigilante: “Se vuole arrivare alla ciclabile meglio che sale sull’argine più avanti, vede laggiù? Oltre la chiesa.” Spiana il braccio destro verso un punto indistintamente a Nord, mentre la mano sinistra esplora una rasatura non troppo recente. Guardo prima il dito che indica la direzione e poi lontano. Oltre i ruderi dell’autostrada in costruzione, la campagna, così com’è, immobile, spruzzata di cascine e pozzanghere di ghiaccio trasparente, ci giudica. Gli aironi sono bianchi alabardieri a difesa del ducato, con solenne dignità da Apache; il gheppio nel cielo ha puntato qualcosa, un bastardino misura il viale d’accesso di una proprietà inciampando su zampe troppo corte. 

“D’accordo, agente, passerò di là. Ma non le dà amarezza questo servizio? Questo suo fare la guardia, intendo, acché celermente e senza intoppi procedano questi lavori? Perché meglio avanzi questo divoramento accurato e metodico?” Mi guarda, un po’ interdetto. “Ci pensa, agente – insisto – tra un po’ di anni, nemmeno troppi, verremo qui sotto, i piloni di questi viadotti saranno ormai marci e fluidi puzzolenti percoleranno nei punti di giuntura tra i cementi, e constateremo di aver trascorso le nostre vite a guardare, rassegnati, la scomparsa dell’erba appena spuntata, verde e fragile, dei ciottoli bianchi levigati dal fiume e del profumo dell’acqua d’inverno. È il fallimento, non trova? Di un’intera generazione, la nostra.” 

Scuote la testa, indica di nuovo il Nord, dice che là è ancora bello. “Ma cosa vuole, professore? Deprimersi? Faccio la guardia al cantiere e lo so, servo chi consuma il paesaggio e gli sono fedele perché è il più forte. Del resto, mi permetta, non penserà di fare qualcosa di diverso, lei, nella sua scuola! Anche lei, se ci pensa bene, sta dalla parte del più forte: magari non quando mette un voto o scrive una pagella, ma nel complesso del suo agire, nel contesto di ciò che la scuola rappresenta e che, se ci pensa bene, è perfettamente integrato e funzionale a questo modo… a questo, come l’ha chiamato? Divoramento, già. E cosa ci possiamo fare se la terra è una cartolina stropicciata dalle mani del più prepotente? Funziona così in questo paese di draghi e, per essere onesti, non solo in questo.” 

Raccolgo un casco di plastica giallo spaccato da terra e lo soppeso tra le mani. “Sa, grande divoramento è una delle traduzioni di porrajmos, il termine con il quale le popolazioni romaní indicano lo sterminio perpetrato dalla Germania nazista nei loro confronti. Forse non ci è lecito usarlo in questo modo, certo l’idea la rende bene.”

Ipomoea batatas

Un altro racconto dell’epidemia

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Il tentativo più azzardato fu certamente quello di vinificazione di uva nera da tavola nell’armadio della nostra classe, la seconda A delle elementari “Divisione Acqui” del Quartiere Primo Maggio di Brescia. Non so se Marina, la maestra, credesse davvero alla riuscita dell’esperimento: un paio di compagni fortunati, alla cattedra, produssero il mosto schiacciando l’uva con le mani in una bacinella da bucato di plastica. La maestra spiegò che sarebbe stato meglio usare i piedi, come facevano i nostri nonni da piccoli, ma che lì, in classe, era impossibile applicare la procedura corretta e quindi toccava accontentarsi. Quindi coprì con cura la vaschetta e quel suo contenuto grumoso di acini maciullati, mettendoci sopra un paio di sussidiari, e la fece scivolare nel buio di un armadio inutilizzato che, ci spiegò, insieme a un ambiente fresco e asciutto, era fondamentale per ottenere un prodotto di qualità. Qualche settimana e avremmo filtrato via le bucce, eliminato le impurità e proceduto a ulteriore affinamento, sempre in vasca e sussidiario, in attesa di assaggiare quel nettare con l’arrivo della bella stagione. L’anta dell’armadio non venne più riaperta. L’anno trascorse tra operazioni in colonna, dettati e Gianni Rodari mandato a memoria, finché in primavera la mia famiglia si trasferì e io cambiai scuola. Ricordo che era primavera perché nella nuova scuola, il primo giorno, la maestra Maria ci diede da studiare Marzo di Cardarelli, Oggi la primavera / è un vino effervescente. Di quel mosto non seppi più nulla, ma conoscendo le scuole italiane, posso supporre che un giorno qualcuno, un custode o un maestro alla ricerca di se stesso, aprirà l’armadio e lo scoprirà, in fondo a uno scaffale, in forma di incrostazione su conca di plastica e senza l’indicazione dell’annata, il 1986. Altri esperimenti, meno appassionanti, riguardavano gambe di sedano alimentate ad acqua e inchiostro delle bic estratto soffiando nelle cannucce, non ho mai capito a quale fine, e le più varie sterili colture idroponiche, su tutte i borlotti schiacciati da batuffoli di ovatta inzuppata contro il vetro di un vasetto e, il più grande classico, la patata americana messa a germogliare immergendola per metà nell’acqua.  

Non è nostalgia per i tempi andati, o per quella scuola un po’ naïf a cui i nostri esperimenti odierni di insegnanti a distanza mi rimandano con il pensiero. Non è nemmeno il desiderio di vedere realizzato un esperimento, dopo tanti fallimenti. È la voglia di viaggiare, nel tempo e nello spazio, la ragione per cui, mentre viviamo reclusi nelle nostre abitazioni, nel tentativo disperato di tamponare la diffusione dell’epidemia di COVID-19, ho messo a coltura una patata dolce sulla mia scrivania. Dal Quartiere Primo Maggio, un cuneo di casette operaie tra la fabbrica chimica e l’acciaieria, alle aree tropicali delle Americhe da cui questa pianta trae origine, e particolarmente diffusa nelle isole lambite dai mari del Sud, dove rattoppati legni corsari misero per secoli alle corde i vascelli della Corona, alla Cina dei Ming, anche qui l’apprezzamento locale per il prezioso tubero è documentato, all’Anguillara, dove le coltivazioni di batatas accompagnarono il Risorgimento, a questa Parma percorsa dall’urlo delle ambulanze.

La patata, prima di essere messa nell’acqua, va tenuta al buio per una decina di giorni. Io ho usato la scatola delle scarpe da ginnastica (l’imprinting della maestra Marina, in quanto ad artigianato ciabattone, ha lasciato il segno). Quindi la si può mettere sospesa in un vasetto pieno d’acqua per metà, in un luogo ben esposto ma senza luce solare diretta. Meglio aggiungere, nel vasetto, un pezzetto di carbone di legna, a evitare marciumi. Quindi, non rimane che l’attesa, lo spazio di vederla germogliare, il tempo che arrivi la fine di questa maledetta epidemia. L’attesa che qualcosa accada, la vita spogliata degli appuntamenti, delle corse a perdifiato, delle bollette dimenticate sul tavolino vicino al telefono, dei cornetti caldi, delle lezioni su Calvino.

 

 

Il cinghiale

Un racconto dell’epidemia

cinghiale-1La letteratura è menzognera fabbrica di illusioni. Tutti abbiamo letto il Decameron, o l’abbiamo studiato sul Baldi, e così, alla notizia della serrata delle scuole, dell’istituzione di una Zona Rossa, del dilagare dell’infezione, la boccaccesca brigata, isolata in campagna a comporre un cosmo ordinato di piaceri, facezie e sogni belli, è parsa da subito alternativa naturale al caos lombardo. Nei borghi appenninici, il cigolio delle imposte ha annunciato il ripopolamento delle seconde case, mentre credenze incrinate e tavolacci di legno si risvegliavano sotto l’acciottolio rinnovato dei piatti. Genitori in fuga hanno sventolato le scacchiere bianche e rosse delle tovaglie per imbandire cibi genuini e semplici, i bambini hanno tirato fuori vecchi giocattoli dalle scatole di cartone impolverate e qualcuno ha provato a capire se la grappa dimenticata sulla cornice del caminetto, nella sua bottiglia con dentro il veliero, fosse ancora buona. Oneste brigate, per la verità, un po’ più nucleari e meno licenziose dell’originale, comunque unite e forti della magia dello stare in paradiso ad osservare il mondo in fiamme.

Ma la letteratura è un imbroglio e, in effetti, non è che Boccaccio fosse proprio un infettivologo. Selezionare , in una Fiorenza impestata, dieci giovani perfettamente sani da mettere in isolamento (perché poi ci sono il periodo di incubazione, i pazienti asintomatici e le cento variabili di cui siamo ormai esperti) sarebbe stata impresa dalla riuscita decisamente improbabile. Nella villa di campagna, se fosse esistita, avremmo trovato re e regine intenti a ragionar di “sozzi bubboni di un livido paonazzo”, a rantolar tra i catarri di forme polmonari e della loro letalità. Ispirarsi al Decameron per affrontare l’epidemia è un’idea geniale se l’intendiamo come un aggrapparci alla forza salvifica della narrazione, è pensata piuttosto tócca se invece la pigliamo come un ricalcare il sogno di isolamento dal mondo di un gruppo di privilegiati. Inoltre, non andrebbe sottovalutato il fatto che le potenzialità creative della middle class in villeggiatura sono piuttosto carenti, sicuramente nemmeno lontanamente all’altezza di quelle dei vari Dionei ed Elisse.

Questa nostra vita nei boschi fuori stagione, insomma, dopo un impatto di incanto, si fa un po’ più spenta, più malinconica e ansiosa: non protegge, più di tanto, dal virus ed è tarlata dalla noia. Svanita l’illusione di fare dell’epidemia un periodo da declinare al languore di un intontimento leggero, che cosa ci aspetta? Questo è quanto abbiamo iniziato a chiederci, noi che ci siamo autoisolati in questo modo.

Undicesimo giorno, ore sedici, allenamento prima che il sole tramonti. Attraverso il bosco lungo il sentiero, di corsa, sotto la pioggia. Le gambe rullano rimbalzando sulla gomma delle scarpe rosse e la terra è come vibrasse, spinta via sotto la patina sottile di fango vischioso come bava di lumaca. Da un lato il massiccio della Pietra svanisce a lampi, accecato da coltellate di sole tra la nebbia e le nuvole, oltre gli alberi nudi, tralicci storti contro il cielo metallico. Appare all’improvviso, con lo schiocco secco che fa un ramo spezzato, più forte del ticchettio della pioggia. Corre parallelo al tracciato, appena a monte, a tre o quattro metri da me. La paura diventa una contrazione innaturale dei muscoli della schiena, mentre le gambe girano a mille, molto più forte di quanto sarebbe prudente su un terreno così sconnesso. Non posso girarmi a guardarlo, rischio di mettere un piede in fallo, ma avverto la sua presenza di animale orgoglioso e possente. Cento, duecento, trecento metri. Penso assurdamente al romanzo geniale di Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance. A quanto sia divertente. Il cinghiale non è un nemico, ma una coscienza critica spiritosa ed ecologista. Corro, senza più paura, sempre più forte, senza sapere da dove passi questa pista, né dove finisca. Quando mi accorgo di essere rimasto solo, non so più dove sono, non so in che momento esattamente lui si sia stancato di correre. Ma so che tutto andrà bene. La letteratura è menzognera fabbrica di speranza.

I giorni degli eroi

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Portovenere, 12 giugno 1921, pomeriggio. Giacomo aspetta sotto l’arco medievale dove inizia il carruggio, in silenzio. Le dita nervose trastullano il fiocco rosso che ha legato al bastone da difesa. Costanzo e Paolo, suo fratello, attendono con lui. Due operai e un fornaio, comunisti. Il vaporetto dalla Spezia attracca al molo, duecento metri più sotto, scendono sedici fascisti partiti appositamente dal capoluogo per una spedizione punitiva contro i tre. L’inferiorità numerica era in conto, ma non nel rapporto di uno a cinque. Giacomo stringe il bastone finché non gli sembra di riuscire a comprimere il legno con la forza delle dita. Dietro le finestre socchiuse occhi preoccupati sorvegliano la scena. Inizia il pestaggio, i ragazzi si sanno difendere, decisi a tenere testa alla squadraccia fino a che ne avranno. Dalle finestre piove di tutto: legna, stoviglie sbreccate, gerani nel loro vaso di coccio. Esce una pistola, spara. Paolo e Costanzo riescono a darsela su per i carruggi stretti. Giacomo, ferito, rimane sul selciato. I fascisti tirano fuori le lame e a pugnalate si accaniscono sul corpo dell’operaio, finendolo. Tutti arrestati, verranno presto prosciolti dal tribunale di Chiavari.

Ora questa piazza porta il suo nome, Giacomo Bastreri, inciso nel marmo della targa odonomastica sopra la scritta “Martire della Libertà”. Ora questa piazza odora di decomposizione e diesel combusto e nei suoi bar con i tavolini all’aperto servono costosi drink annacquati. Un vecchio guarda il mare dalla sedia di plastica che si è portato da casa, accomodato per bene, in ordine come gli asciugamani intonsi di una stanza d’albergo. Se chiedi al vecchio chi fosse Giacomo Bastreri, ti dirà che è uno che hanno ammazzato i tedeschi, o forse i partigiani e che, comunque, i comunisti non erano mica meglio dei fascisti. Una crociera Costa attraversa il golfo: un alveare, le facciate delle Vele di Scampia nei fotogrammi sgranati di una serie TV. La sera si allunga e spinge i lampioni a specchiarsi nelle acque trasparenti del canale: è un’estate decadente, in un tempo di passioni tiepide, parole insignificanti, fotografie con i filtri, discussioni e commenti, cuoricini e pollici alzati. Sei qui. Ma avresti voluto vivere i giorni degli eroi, i giorni di Giacomo, quando sognare un mondo migliore era questione di vita, o di morte: il primo passo per costruirlo. Altro che cercare qualcosa che non faccia proprio schifo sulla scheda elettorale, una volta all’anno, per metterci la croce sopra e sentirsi un po’ meglio della media.

Che l’estate finisca

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Lerici, 29 giugno 2019

Non dico frocio, negro, troia. Non sono perbene. Non auguri a una ragazza di essere violentata. Non sei perbene. Non mi sono rotto le palle. Non sono perbene. Non auspichi la riaccensione dei crematori di Auschwitz. Non sei perbene. Non voglio sparare nella schiena a nessun ladruncolo, non gliela voglio ficcare una pallottola nel cranio, no. Non sono perbene. Ami la Francia, Giovanni Giudici, i profumi della Palmaria. Non sei perbene. Amo le isole, Totò Antibo, Basquiat. Non sono perbene.

Il golfo ha lo stesso colore del cielo oggi, non c’è vento e gli alberi delle barche a vela ormeggiate all’ombra del castello oscillano dolci. L’equipaggio della borgata marinara si allena sotto il sole implacabile, muscoli gonfi affondano i remi nell’acqua cremosa. Contrasta, la pace di questo luogo di villeggiatura, con la brutalità della cronaca, che ci dice l’inaccettabile abnegazione con cui il nostro governo ha tentato di impedire il salvataggio di un gruppo di naufraghi, vietando l’attracco alla nave Sea Watch 3. Scuoti la testa, incredula, davanti alla sequela di insulti che salutano l’arresto della capitana della nave soccorso, davanti a chi invoca la violenza sessuale di gruppo come giusta punizione.

Guarda: il sacrificio della patria nostra è consumato. Guarda questa nostra terra oltraggiata: tutto è perduto. Qui si è liberi di odiare, offendere, violentare; qui si può sparare, arrestare, eliminare. E aggredire in gruppo esseri inermi: è l’estate, nera, della gente perbene. Lo so che adesso alzi gli occhi al cielo e sorridi, mollando la Settimana enigmistica,  che vecchio trombone sono diventato. Colpa di Foscolo però, non mia. E poi sopportami, ché sarà per poco. Viviamo infatti una fase transitoria, presto tutta questa spazzatura finirà. Il razzismo, la violenza, sono prodotti umani e come tali segnati dal destino a scomparire. Niente più Salvini, fra qualche giorno, ma donne e uomini liberi, capitani e capitane di vascelli del sogno, come Carola Rackete e Corto Maltese.

Ci basterà aspettare, nuotando in mari tranquilli o avventurandoci in acque più tempestose, vicino al cuore della rivolta. Aspettare che l’orrore finisca, come sereni si aspetta la fine dell’estate, guardando il tramonto dalla spiaggia ogni sera. Sarà questo, amore, l’utopia. Stare con te, tenersi per mano, mentre il cormorano si tuffa. Dev’essere questo, amore, l’utopia.

Glock 17. Difesa legittima

glockIl 6 marzo 2019 la camera ha approvato la riforma della legittima difesa. Al voto sono scoppiati gli applausi di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Dal 26 marzo il provvedimento passerà al vaglio del Senato per la terza lettura.

Gli occhialetti alla Cavour e il riporto incollato in testa che disegna una forma come di forchetta potrebbero, a prima vista, ingannare. Sanno di tipo un po’ pedante, come quelli che t’arrivano all’assemblea del condominio con calcolatrice e Codice Civile, e dalle abitudini un po’ sozze, tipo lasciare le scarpe sul pianerottolo con i calzini appallottolati dentro. Invece Mario, il dirimpettaio, è uno a posto. Non so che lavoro facesse, ma sicuro che ora è in pensione: non esce più la mattina alle sette e poi ha dismesso i completi per le tute diadora. È uno pacifico, con il garage in ordine, ci tiene l’auto e un mucchio di scatole e scatoline per tutto, chiodi, viti, chiavi e cacciaviti, utensili strani, di quelli che ti capita una o due volte nella vita di dover utilizzare, ma che certi uomini, come per esempio mio padre, amano collezionare. Nel caso ci fosse da riparare la grondaia, e il fondamentale compito venisse affidato a te, è meglio avere in casa tutto l’occorrente.

Maneggevole e leggera, sei fredda, sei molto leggera, sei proprio giusta, come misure, intendo equilibrata, ti tengo in mano, ti appoggio sulla scrivania, ti osservo. Ce l’hai un’anima, sì? Ma cosa dico, sei un oggetto, e però vivi, mi guardi, mi stai in mano, mi parli, mi chiami e respiri, respiri con me. Dal fondo del cassetto dove ti ho chiusa con la chiave d’ottone. Mario, mi fai. Mario, lasciami qui, ma adesso sai che ci sono, torna se vuoi, torna da me. Dio come… fatti guardare, fatti baciare, ti tengo in grembo, come un cucciolo. Il foro freddo, lo sento contro le labbra, il carrello, lo passo sulla guancia rasata, è meno freddo, è il trattamento Tenifer. Respiro il tuo odore, il mio alito ti appanna il corpo in punta, proprio dove c’è il logo rettangolare. Ti metto via ora, ché inizia la partita. Ti metto qua, carica, ma con la sicura. La giro la chiave d’ottone? E se poi mi servi all’improvviso? Va bene, d’accordo, sei tu che comandi: la giro, ma la lascio nella toppa.

Da quando la figlia si è trasferita per lavoro in Piemonte, Mario è un uomo più aperto, socievole. Prima se ne stava sulle sue. Non che fosse maleducato, no, questo no. Ma certo non era uno di quei tizi che ti raccontano i fatti loro. Adesso, se uno ha fretta, è meglio che non lo incontri sul pianerottolo o nell’androne, perché è tutto un: ma quelli del Comune, quando la fanno la pulizia delle strade? E questa differenziata, ma chi la capisce? C’è mia moglie, Adriana, che dice che ieri ha sentito odore di fumo, qui, nell’ascensore. E cose così, un po’ noiose, ma che gliele perdoni, perché si sa, quando un uomo ha sempre lavorato e va pensione, finisce che si stufa un po’, e allora facile che si fissi con cose da niente. Comunque meglio Mario di tanti altri vicini: l’esaltato della palestra, per esempio, o la professoressa del quinto, tutta altezzosa. Per non parlare di Manu, il re della frittura, che impuzza le scale ogni giorno, e di Mino, che tutte le mattine fa il giro di controllo dell’Audi con la lente di ingrandimento in mano.

Ti penso, ti penso forte, non voglio, ma ti penso. Adesso arrivo, aspetta, un attimo… no dai, vengo subito, tanto questa Inter fa schifo, che noia. Tiro il cassetto, Salve o Regina Madre di misericordia, vita, sei vita, sì. Per come mi fai sentire, per quello che prometti, dolcezza. Che mi prometti? Speranza nostra, mi prometti, e salve, anche prometti a me, Mario. A te ricorriamo, noi, uomini soli, esuli, dai giorni contati, figli di Eva: a te sospiriamo, ti desidero, ti amo, gementi e piangenti: asciugami il viso madido, in questa valle di lacrime dammi un bacio. Orsù, dunque, per la tua bocca d’acciaio, avvocata nostra, fatti adorare, rivolgi a noi, a me, gli occhi tuoi, ho la gola chiusa in un pugno, misericordiosi e mostraci, dopo questo esilio, ma come mai non t’ho avuta prima? Gesù, fammi mangiare, il frutto benedetto, voglio… voglio divorarlo, del tuo seno. O clemente, cosa ne dici? o pia, se ti levo di qui? o dolce Vergine, ti porto in camera, dolce, vergine, in camera da letto… dolce vergine Maria. Ma non sotto il cuscino, no, nel comodino. Amen.

– Oh, buongiorno professore. Che mi racconta? Non riesco a capire come possa tornare a casa vivo ogni giorno, con la marmaglia che c’è nelle scuole oggi. Quando andavo a scuola io…
– Buongiorno, Mario. Adriana, come sta? Ma quale professore e professore… Emiliano basta e avanza.
– Vede, professore, lui è abituato così.
– Ho capito, Adriana. Vada per il professore allora.
– Comunque, dicevo, il fatto è che oramai sono troppi, ce ne sono dappertutto. Non può dire di no.
– Di che cosa?
– Mario! Non iniziare, piantala con questa solfa. Hai ragione, ormai è pieno, ma già alla mattina, con la politica, ma che scatole…
– Quante storie, Adriana. Vuoi star zitta, per favore?
– Scusate, ma vado di fretta… devo proprio scappare. Arrivederci.

Tiro il cappuccio della felpa sulla fronte, infilo il portone. Cosa ci vuoi fare? Sono anziani, la TV li spaventa. Sicuramente non erano così, prima. Prima quando? Boh, prima. E comunque sono brave persone. Innocue.