e quindi esistere

Non è lo strappo nel cielo di carta del teatrino di marionette, il moscerino che  una sera ti entra nell’occhio al tavolino di un bar. Si ficca in chissà quale regione del globo oculare e da lì pare proprio non voglia più uscire, ma non fa crollare le tue certezze come un castello di carte, certo che no. Semmai ti manda all’aria una mezza giornata di programmi, ché dopo aver armeggiato con fazzoletti, batuffoli, impacchi e lavande artigianali la sclera è solcata da una fitta ragnatela di sangue che ti spinge tra le braccia amorevoli del dottor Guerci, di turno al pronto soccorso oculistico. Un girone dantesco frequentato da torme di orbi sospettosi che si scandagliano a vicenda allargando in modo innaturale l’emicampo visivo generato dall’unico occhio buono (quelli che ce l’hanno, l’occhio buono).

Mentre sei in attesa, pensi che oggi al lavoro si dovranno arrangiare senza di te, e un po’ godi anche a pensare a come andranno in allarme, i tuoi colleghi e soprattutto i capi, e a come si innervosiranno, perché adesso chi se la smazza quella seccatura di cui di solito ti occupavi tu? Poi dopo un’iniziale manciata di secondi di incertezza, la menata di tua competenza sarà spicciata in quattro minuti dal primo che passa e quando domani butterai lì un ma come avete fatto? O un chi se n’è occupato? riceverai per tutta risposta un non so, corredato da un vago guardarsi intorno dell’interpellato, o da una sua espressione assorta perché attratta dal pensiero del biglietto del parcheggio in scadenza. Così, senza fretta, raggiungerai la tua postazione, accenderai il computer e sorbirai con calma il tuo caffè della macchinetta automatica ulcerandoti lo stomaco, involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua inutilità. Ti consola che non è che i lavori degli altri, le vite degli altri, siano tanto più cruciali della tua. Se anche il pezzo più grosso dei pezzi grossi, poniamo per esempio Xi Jinping, si prendesse così, per dire, la dissenteria, cambierebbe forse di una virgola il destino dell’umanità? Non c’è bisogno di aspettare i posteri, la sentenza non è poi tanto ardua e la risposta è no, la gloria non vale niente. Figuriamoci la quotidianità.

Nei romanzi autobiografici della trilogia di Copenhagen di Tove Ditlevsen, la quotidianità immutabile e insignificante della vita si agita composta per le strade e dietro le pareti degli edifici della capitale danese. Assume la forma di cittadini automatici che in preda a misurati furori escono di casa, vanno al lavoro, comprano mobili, ballano, bevono gazzosa, si iscrivono ai sindacati, hanno paura di Hitler, si incontrano, tremano nel freddo della notte scandinava incartati in cappotti da quattro soldi, muoiono in modo più o meno casuale. Li attraversa Tove, la poeta bambina, poi giovane e adulta, alla ricerca di una formula che trasformi i versi in una poesia con tutti i crismi. Una poesia che faccia compiere il miracolo, nell’ingranaggio umano che della sua perizia versificatoria non se ne fa nulla, se non quando le richiede testi d’occasione, pagati quattro lire, per matrimoni e funerali. E che di suo pretende solo il lavoro del corpo, e l’occupazione ordinata di ruoli fino allo sfinimento fisico, alla consunzione dell’umanità che fa il paio con quella degli abiti dei poveri, indossati per mille giorni, prima di essere rivoltati e indossati ancora. A un certo punto Tove dice che non sa perché desidera vedere un giorno alle stampe i suoi componimenti, così che altra gente dotata di senso della poesia possa goderne, ma che questo desiderio è ciò che la spinge ad alzarsi ogni giorno. 

Il desiderio di essere la polvere che si accumula nel movimento di un orologio o forse la neve che manda in tilt una città, il desiderio di essere il moscerino che ti entra nell’occhio al tavolino di un bar, e quindi esistere. 

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Informazioni su Emiliano B

Un lombardo in Emilia. Insegnante nelle scuole secondarie. Amo le lettere, la musica di Seattle, il calcio, i vizi.

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