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Salvezza

siriaOgni santo giorno la stessa storia. Entro in classe e lo trovo così: piazza due sedie una opposta all’altra e ci stravacca sopra il suo metro e ottanta. Incastrato con attenzione un piede sotto uno schienale, si puntella con un gomito al legno scheggiato della seduta, per raggiungere un punto di equilibrio che difficilmente abbandona; del resto, tutto ciò che gli serve ce l’ha a portata, sparpagliato sul banco: quattro o cinque tascabili spiegazzati, perlopiù Stevenson, Conrad, London, una matita, un quadernetto, una sigaretta elettronica di quelle con il serbatoio a forma di parallelepipedo che, poggiata lì, sembra una grossa pipa a riposo. “Non la fumo professo’, state tranquillo, la tengo qui per compagnia”, dice senza staccare gli occhi dalla lettura. Vincenzo è piombato da poche settimane in questa classe di quasi tutte ragazze, portandosi dietro i suoi jeans strappati, un paio di All star scolorite, una t-shirt di che cotone dice che Ciro Esposito è vivo. Da allora vive sotto una campana di cristallo, una cupola sigillata, impermeabile, dalla quale escono pochi, quasi impercettibili, suoni. Nella quale pare non filtrare nulla. Lui sta lì dentro, legge. Scrive. Ogni tanto indossa delle pesanti cuffie wireless arancioni, poi le toglie. Scrive. Legge. Intorno alla cupola di Vincenzo è tutto un brulicare di vita: le ragazze ridono, strillano, si accapigliano, piangono, studiano, alzano la mano, vanno in bagno, sistemano il trucco al cambio dell’ora. Fanno mille rumori che a lui non arrivano. Gli insegnanti entrano, sbadigliano, interrogano, accendono la lavagna, spiegano, sbadigliano, escono. Dicono mille cose, Vincenzo lì sotto non sente niente. Le campanelle suonano, i ragazzi escono spintonandosi, i bidelli spazzano. Fuori il sole buca le nuvole o si nasconde, il vento soffia tra i rami gemmati dei tigli del parco, si porta l’odore di concime della campagna misto ai gas di scarico delle auto imbottigliate sulla circonvallazione, entra dalle finestre aperte dell’aula ormai vuota. Niente di tutto questo arriva a Vincenzo che è ancora lì, in equilibrio su due sedie disposte a formare un specie di amaca per fachiri. Il richiamo della foresta. Raccolgo i miei libri. Vincenzo legge. Impacchetto un mucchio di verifiche. Vincenzo scrive. Ripongo il prezioso pennarello da whiteboard nell’astuccio. Vincenzo legge. Intorno alla cupola di Vincenzo è tutto un brulicare di morte. Un gas velenoso galleggia e si infila nei corpi per ucciderli dall’interno, lasciandoli contorti sul selciato. Autobombe scagliano lontano rottami e schegge miste a pezzi di corpi di madri accorse per il mercato. Folle urlanti fuggono da tir impazziti calpestandosi sull’asfalto. Vincenzo legge. Infilo lo zaino, sistemo la sedia sotto la cattedra,: “Ciao, Vincenzo. A domani. Senti un po’, com’è che non te ne esci mai da lì dentro? Perché stai sempre a leggere e scrivere per i fatti tuoi? Perché non provi a stare tra noi?” Una pioggia di missili tomahawk si abbatte contro il cristallo infrangibile della cupola, frantumandosi in un tripudio terribile di fuoco e metallo urlante. Gli occhi azzurri di Vincenzo sorridono: “Professo’, fuori della penna non ci sta salvezza. Voi non lo pensate?”