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Mondi a testa in giù

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti.
(A. Gramsci)

Non esistono in città studenti fuorisede che, almeno una volta, non si siano prestati a fare da assaggiatori per il locale stabilimento della più importante industria alimentare del Paese. Si viene convocati presso gli uffici dell’azienda in una data e a un’ora prefissata e si viene dirottati in una sala dove vengono somministrati prodotti da recensire, poi, tramite un questionario. Si può essere, per esempio, selezionati per tastare la fragranza del biscotto ai cereali e allora tocca mangiarne due campioni: uno, si scopre successivamente, appena scartato e un altro vecchio, magari della settimana prima o del mese prima. “Qual è quello fresco? Quello fragrante e profumato o quello stopposo e ammuffito?” Chiede il questionario. Si crocettano le risposte del caso e quindi si torna a casa, dove si attende con fiducia il pacco premio che ricompensa gli assaggiatori: si tratta di uno scatolone contenente qualche chilo di pasta (di solito quella delle misure più assurde), merendine (quelle spugnose alla carota che non piacciono nemmeno al cane), sughi (al sapore di fabbrica). È un’esperienza tutto sommato interessante e, cosa non di poco conto quando si è studenti squattrinati, riempie la dispensa.

Stamane, scodellando per il cane una scatoletta di paté al tonno, mi sono accorto di un piccolo logo, posto su un angolo della stagnola: cruelty-free, non testato su animali. È per questo che mi sono ricordato degli universitari assaggiatori. Ho riflettuto infatti sul fatto che, se non sono gli animali a provare le scatolette per cani, devono per forza farlo degli umani. Quindi esisterà, da qualche parte, un salone dove a gruppi di ragazzotti vengono servite porzioni di mangime accompagnate da questionari: “quale paté proviene dal barattolo aperto la settimana scorsa?” A pensarci si tratta di una cosa davvero incredibile, ma non può essere altrimenti, a meno che non esistano macchinari creati appositamente per testare il cibo per animali. L’immagine di un giovanotto che azzanna un boccone di manzo ai piselli per cani, tutto composto e con un largo tovagliolo infilzato nel colletto della camicia a proteggerlo dagli schizzi di gelatina, trasmette l’idea che ci siano mondi costruiti all’incontrario, a testa in giù.

Ci sono situazioni che paiono tanto assurde da risultare quasi incredibili, ma che tuttavia esistono e non sono poi meno reali di quelle che ci risultano familiari. Questa dei degustatori di mangimi è una, ma ve ne sono innumerevoli. Un’altra, per esempio, la ritroviamo sulla rinomata spiaggia di Forte dei Marmi. In questo periodo di caldo eccezionale, i venditori ambulanti erano soliti riposarsi in un’area dell’arenile posta sotto un pontile, una risicata zona d’ombra vitale per questi infaticabili camminatori. I bagnanti del Forte, che con tutta evidenza amano comprare il tarocco, ma non gradiscono la vista di capannelli di venditori sfiancati dalla fatica che si riprendono all’ombra del pontile, si sono però lagnati con il Comune, che ha subito provveduto a impedire con una recinzione l’accesso all’ombra. Ecco: esiste un mondo all’incontrario dove a un uomo schiantato dal sole viene negato il ristoro di un po’ d’ombra. Ed è un mondo d’eccellenza, dicono. Il sindaco PD Buratti anticipa eventuali critiche con un piagnucolio: “la rete serve per garantire il decoro“. Come se i poveri non fossero decorosi. Non sa, Buratti, che i poveri sono decorosissimi? Che è la povertà ad essere indecente, ed è quest’ultima che va combattuta, non gli affamati? E ancora: “… il provvedimento non è nella maniera più assoluta indirizzato a lasciare sotto il sole cocente gli extracomunitari che vogliono riposarsi. Se così fosse, dovremmo allestire mense a cielo aperto o dormitori in spazi ombreggiati e consentire ogni genere di comportamento, fra i quali potrei citare a mo’ di esempio, l’imbrattamento dei muri, per dar sfogo alla libertà creativa di qualcuno.”
Già, come se imbrattare i muri e cercare riposo all’ombra fossero la stessa cosa.

A dar man forte al sindaco anche il deputato democratico Gelli, che sentenzia: “Una realtà di eccellenza come la Versilia che vive innanzitutto di turismo non può permettersi di trascurare le proprie spiagge”. Bisognerebbe ricordare a Gelli come in una realtà di eccellenza non esistano uomini lasciati a stramazzare di fatica e di caldo. Non si tratta di buonismo, si tratta di senso di appartenenza al genere umano. Le reti del Forte sono come le panchine nei parchi della Treviso di Gentilini, levate per evitare che ci si siedano i migranti. Sono come le parole di Calderoli, sfacciate e razziste. Quindi, cari amministratori che negate l’ombra agli africani, e cari esponenti del Partito Democratico che vi guardate bene dal prendere posizione, non denunciate il razzismo altrui se per primi lo praticate. Non basta che vi diciate democratici, o che vi facciate schermo di futili motivazioni da realpolitik paesana, annaspando per distinguervi dagli xenofobi padani. Non fate che pena.

Io, venditore di bracciali

Nel mercato del nord mi sono intristito.

Nel mercato del nord ho perso te e il mio sud.

Gëzim Hajdari, da Stigmate

070913_2004_Iovenditore1.jpg“Le strade, le strade! Con tutte le strade che, a sentir loro, hanno costruito in Africa, questi italiani potevano almeno pensare a lastricare un passaggio anche sulla stradannata spiaggia di Riccione!” rifletto ansimando, mentre spingo un passo dopo l’altro, con i piedi che sprofondano nella sabbia, i granelli che si infilano nei sandali di gomma a dare il tormento alle vesciche, il sole che mi schiaccia per terra e la mezza valigia che funziona da espositore per occhiali da sole, bracciali e collane che pesa il doppio a ogni ora che passa. Si vende poco, quest’anno. La Riviera non è affollata come le scorse estati e la gente che c’è, anziché comprare, fa un sacco di domande oppure soppesa la merce sul palmo aperto della mano, o la guarda in controluce, per poi dire: “Ci penso… Ripassi anche domani, no?” E così ne devo macinare di chilometri di stabilimenti di cabine e ombrelloni colorati per vendere qualcosa. “Scusa, vedere?” Mi fa un tizio seminascosto dietro un numero della Settimana enigmistica, spalle strette e pancia larga, occhiali tondi e qualche ciuffo di barba brizzolata: “Tu vendere solo braccialetti e collanine? Non avere orologi?” “No, niente orologi…” mi giustifico: “non vanno più, quindi non ne tengo. Sarà che l’ora la legge anche sul telefonino, l’orologio è diventato un accessorio di lusso, o quantomeno un oggetto chic, non una cosa che si compra in spiaggia. Almeno credo…” Abbassa la rivista, la bocca che disegna lo stupore in una O: “Ah! Tu parlare italiano?” “Certo!” rispondo sorridendo: “L’ho studiato a scuola e poi, oramai, sto qui da sette anni.” Contrae quanto gli resta degli addominali e si mette a sedere sull’asciugamano, lo sforzo e la pena scritti in un smorfia di dolore: “Ma pensa! E da dove venire, tu?” “Vengo dalla Somalia, sa dov’è?” “Certo, certo! Ma tu essere proprio di Nairobi, o venire da campagna?” “Vengo proprio dalla capitale,” rispondo: “la mia famiglia vive ancora lì, a Mogadiscio. Un tempo era la citta più bella dell’Africa, la Perla dell’Oceano Indiano, ma la guerra l’ha sfregiata in maniera irrimediabile.” Non mi ascolta più, accarezza i bracciali di vetro colorato, ne stacca uno e lo analizza in controluce allungando in aria il braccio peloso: “Bellini questi! Da dove venire? Da Africa?” Ci penso un po’ su: “Vede, quei frammenti colorati, non sono altro che i ninnoli importati in Somalia dagli italiani, quando il mondo era diviso in Nazioni Progredite e Colonie. Gli alfieri del Progresso rifilavano ai nostri vecchi affamati questi vetrini luccicanti, spacciandoli per oggetti preziosi, per cose di valore. Come contropartita si prendevano oro e petrolio. Adesso da noi non rimane più nulla e noi giovani siamo costretti a emigrare, a vivere senza un tetto, a soffrire ogni giorno trascinandoci in mezzo alla gente spaparanzata sui lettini, che sonnecchia o scola granite e birra fredda. E lo sappiamo pure, di rompere un po’ le scatole, quando invadiamo il vostro spazio con le nostre valigie di ciarpame, ma che volete? Dobbiamo guadagnarci il pane e non abbiamo altro modo, per farlo, che restituirvi i vostri maledetti vetrini.” Non mi segue, il tizio. Fruga nei boxer rossi alla ricerca di qualcosa, spero il portafogli, o forse solamente si gratta, dato che poi scrolla la testa: “Mah, dici? Secondo me li fanno in Cina”. Lo fisso e mi rassegno: “No, no essere di Cina, venire di Africa, di mio paese Nairobi!” “Sicuro? Non ci credo mica tanto…” Borbotta e, finalmente, tira fuori il portamonete.

La risposta dell’ambulante somalo sulla provenienza dei bracciali è reale, la racconta un lettore del Secolo XIX in una lettera al quotidiano pubblicata domenica 7 luglio. Tutto il resto è fittizio.